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February 2022

Non sono previsti spettacoli per il mese selezionato.

immagine di copertina La parola guerra nel progetto del teatro Koreja: la città delle parole

La parola guerra nel progetto del teatro Koreja: la città delle parole

Visioni
di Gigi Mangia

Immagino: la città delle parole come una tipografia dove arrivano parole per scrivere la polis del teatro su cui sventola la bandiera arcobaleno, la bandiera della pace di un teatro contro la guerra. Scrivere non è solo atto creativo, ma esperienza di crescita come, molto bene, insegnò a fare il pedagogista Mario Lodi nella scuola elementare. Le parole servono per aprire relazioni sociali e personali, per scambiare il pensiero, per riempire il silenzio. Per vincere l’inutile solitudine e per tendere una mano e fare esperienza di comunità. Per vivere in teatro.

Le città sono senza pace nel mondo. Ci sono ben 22 guerre. Nel terzo millennio si sono spesi già più di duemila miliardi di dollari per costruire nuove armi e 43 Paesi hanno sommergibili da guerra sotto le acque del mare. L’industria bellica è quella che ha il portafoglio con maggiori profitti. La guerra spaventa, causa crisi e porta paura e fame nelle città.

La guerra in corso sta cambiando pelle, diventando guerra di propaganda in rete e nei siti. L’America comunica al Mondo che il 16 febbraio la Russia farà il primo passo per iniziare la guerra contro l’Ucraina. Il Presidente Putin ha mobilitato centocinquantamila soldati ai confini dell’Ucraina dichiarandola un’esercitazione, ma se guardiamo la carta geografica ci accorgiamo che centocinquantamila soldati con mezzi da guerra blindati, non sono un’esercitazione. Fa paura. Non solo. Raccontare la guerra in rete, parlare della debolezza della diplomazia in politica è far emergere il sentimento di paura e far sentire disarmata la società civile. La propaganda della guerra ha già fatto vedere il trionfo dei profitti con l’aumento del gas e del petrolio a danno dei cittadini.

Quale strada potrebbe evitare il succedersi di una guerra come quelle del ‘900 in Europa? La fiducia e il risveglio dei giovani, di coloro che vengono dal futuro e possono scrivere, con parole nuove, una città senza guerra, la polis del dialogo, del coinvolgimento di tutte le arti per narrare una città senza paura, capace di offrirsi attraverso l’ascolto e la scoperta dell’Altro.

La guerra è inutile, non risolve, ma crea problemi, per questo la città delle parole deve cancellare la guerra dal suo vocabolario.  Il teatro chiede di scrivere parole di pace per arrivare al riconoscimento del disarmo nucleare riconosciuto da tutti gli Stati. Avere città senza la paura della guerra non è utopia, ma un impegno per narrare il futuro delle nuove generazioni e il loro desiderio di vivere tempi di pace.

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immagine di copertina La città delle parole  <br >nell’Europa dei muri

La città delle parole
nell’Europa dei muri

Visioni
di Gigi Mangia

Senza le parole, la città sarebbe come un silenzio vuoto fatto di spazi immobili, di marmi e bronzi muti. Sarebbe una città disegnata dalle ombre nella notte senza la luna. Le parole sono la vita per la città; non può farne a meno, perché sarebbe come un foglio bianco fuori dalla narrazione della storia priva di significati. La città, infatti, si è fatta con le parole, necessarie per vivere e per abitare. È nata per favorire l’incontro e per promuovere la cultura delle differenze e delle convivialità. Il pensiero ha fatto il passaggio e dalle ombre è diventato conoscenza, si è fatto progetto di socialità.

La città nella storia del Mediterraneo ha fatto la prova di declinare il pensiero di Atene con l’aspirazione della fede di Gerusalemme riuscendo a fare l’esperienza della cultura cristiana. Era quella la città aperta senza mura, pronta per l’accoglienza. Ora è cambiata, ha paura, si è chiusa e percepisce nello straniero il suo nemico. 

Anche l’Europa è cambiata. Ora costruisce muri alti, come quello della Polonia in lamiera, alto 5 metri e lungo 180 chilometri: muri per difendersi, per impedire il passaggio agli immigrati in fuga dai loro paesi in guerra. L’Europa dell’Illuminismo fa passi indietro perdendo i valori della cultura del rispetto della persona alla base del progetto dell’Illuminismo Umanistico affermatosi alla fine della Seconda Guerra Mondiale come superamento della città della morte quale fu il campo di Aushwitz.

Per rinascere servono parole nuove. Per abitare lo spazio e vivere il tempo della “polis delle parole” serve una grammatica capace di accendere il desiderio di ascoltare l’Altro, di guardare i suoi occhi e non voltargli mai le spalle. Bisogna lavorare per liberare la città dalle catene dell’indifferenza che impediscono la ricerca della conoscenza e dell’accoglienza del diverso.

La città delle parole può essere la strada, il cantiere, in cui lavorare per una città dove lo studio del passato e la memoria possono servire per affermare la responsabilità del presente, evitando di perdere
la lezione della storia.

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immagine di copertina La fotografia taglia le unghie alla censura

La fotografia taglia le unghie alla censura

Visioni
di Gigi Mangia

Il 21 Gennaio, giornata mondiale degli abbracci, è arrivato in Italia il bambino Mustafa accolto dalla città di Siena. Il piccolo Mustafa di 5 anni , è nato senza gli arti perchè la sua mamma ha respirato i gas chimici delle armi usate nella guerra siriana. Il padre è mutilato per aver perso una gamba a causa dello scoppio di una bomba.

Le 2 vittime innocenti saranno curate al centro di Butrio in Italia specializzato per le protesi, famoso per aver fornito le protesi agli atleti paralimpici e ai grandi invalidi del lavoro. La foto di Mustafa , del fotografo turco, ha commosso il mondo. Nella foto si vedono le grandi mani del padre, con la stampella, alzare verso il cielo il bambino sorridente e felice quando i suoi occhi sono all’altezza degli occhi del padre. La foto è uno schiaffo alla guerra siriana e alla politica incapace di trovare la pace tra i popoli. La fotografia è importante quando fa la differenza, quando non appiattisce nel presente la comunicazione ma la spinge e la proietta oltre la cronaca.

La fotografia ha un grande ruolo è una grande forza. La fotografia continua ad essere un opera d’arte una ricerca estetica. La sua vita però non è più quella di stare esposta sulle pareti dei musei, ma di andare nelle pagine dei giornali, nei siti come nei telefoni smartphone per informare, per denunciare la guerra, la violenza e il dolore degli esclusi. La fotografia è diventata un potere disponibile è facile democratico nella denuncia. Il fotogiornalismo ha tagliato le unghia alla censura dei tiranni. Sono molti infatti i giornalisti finiti in prigione oppure fatti fuori uccidendoli. Il cinema e il teatro, la fotografia e la musica sono impegnati per denunciare le guerre e per difendere invece tutti i valori civili conquistati con le dure lotte fatte contro tutti i regimi di ogni colore politico.

L’ arte non si piega a nessuna forza , obbedisce solo all’ uomo nato per essere libero.

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immagine di copertina È forse questa la vera “Misericordia”?

È forse questa la vera “Misericordia”?

Critica
di Annarita Risola

Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! (A. Manzoni -Promessi Sposi- cap. XXI)

E’ il ticchettio ritmato e veloce dei ferri da maglia ad accendere l’attenzione del pubblico e le luci in sala. In fondo al proscenio su una linea orizzontale, a quattro sedie, si alternano giocattoli e cavallucci. Partendo da sinistra, siedono due donne, un giovane uomo ed un’altra donna. Le prime due parlano a bassa voce e se la ridono di gusto, la terza, seduta a destra sferruzza, di tanto in tanto le guarda con aria triste e tende loro l’orecchio, nel tentativo di capire ciò che si stanno dicendo. Vicino a lei un ragazzo, magro, pallido, con addosso una veste a fiori piuttosto malridotta, si muove in maniera strana, dondola, proietta il busto in avanti con dei movimenti a scatto e ripetitivi.

Intanto una delle due donne si alza, viene avanti e guarda il pubblico, la segue l’amica, poco dopo si avvicina anche la terza, quella dai capelli rossi e ricci, raccolti come se fosse un pon pon. Le donne però continuano ad ignorarla, finché quest’ultima non grida “Arturo” e questi immediatamente corre verso di lei. Ma perché Bettina lo ha vestito così? Questa è la domanda che Nuzza e Anna le pongono. Quel vestito preso dai rifiuti apparteneva ad una di loro, viene accusata di rubare il cibo dal frigo, di non pagare l’affitto…ma Arturo è lì che ascolta e l’abbraccia forte. La lascia solo dopo essere stato chiamato più volte da Anna, che gli mostra una scatola nella quale c’è una collana e una foto di Lucia, la madre di Arturo mentre era incinta.

“Oh che bel castello marcondirondirondello”, sulle note di questo girotondo, inizia il racconto dell’infanzia di Arturo, che ora indossa una vestaglia fiorata da donna e gira intorno a sé stesso, al centro di quella che ora è la sua stanza, con lo sguardo felice e con in mano uno scopino per la polvere. “Dove c’è un bambino c’è sempre la crianza” ricorda Anna, mentre come fosse una favola racconta la storia di Lucia, loro amica e collega di quel particolare mestiere, che la portò ad incontrare quell’uomo detto “Geppetto” poiché falegname. S’intratteneva con lei come tutti gli altri, ma le portava dei dolci e lei si era innamorata, voleva cambiare vita e così era rimasta incinta, lui però aveva il vizio di bere e diventava violento, la picchiava, quella sera più delle altre volte, persino sulla pancia… perciò Arturo nacque di sette mesi e Lucia morì subito dopo. “Ninna nanna, ninna nanna, nessuno ti vuole bene come la mamma”.

Cambia l’atmosfera, le donne sciolgono i capelli mentre Arturo balla e ancora continuano a spogliarsi, tutto acquista un ritmo più veloce, movimenti ammiccanti, sguardi seducenti, simulazioni di amplessi, e Arturo le imita, indossa i tacchi e passeggia avanti e indietro finché non prende un sacco nero e lo svuota sul pavimento, facendo rotolare qua e là un’infinità di giocattoli che prontamente Anna, Nuzza e Bettina
cercano di raccogliere, veloci nel gesto, quanto nel modo di parlare. Ma è tempo di riposare, perché presto passerà il pulmino che lo porterà in una nuova casa, con una stanza tutta sua, con la finestra dalla quale potrà vedere il sole.

Ora anche Arturo aiuta a raccogliere i suoi giocattoli consentendo alle donne di sedersi e a guardarlo mentre balla, sempre meno goffo, come un uccellino che sta per spiccare il volo, non è più un ragazzo fragile ma una libellula, un danzatore Sufi senza gonna, che ruota, ipnotizza, incanta. Nulla sembra avere più importanza e nulla pare poterlo fermare…tranne il suono di un carillon che lo stordisce tanto da farlo addormentare su di una piccola copertina celeste, adagiata a terra, sulla
quale si rannicchia e dalla quale si rialza pur continuando a dormire, ormai sonnambulo, pare quasi cadere mentre le donne, sempre lì, sono pronte a prenderlo.

La canzone de “Le avventure di Pinocchio” (memorabile leitmotiv di Fiorenzo Carpi), dà il via alla sua vestizione, che esegue in maniera autonoma, ad uno ad uno prende i suoi vestiti che sono adagiati sulla sedia, la camicia, i pantaloncini, le scarpe i cui lacci non annoda e pur ricominciando a ballare, inseguito dalle tre donne, non cade. Ma ecco da lontano si ode il suono della banda che lo porterà alla sua nuova vita e alla sua splendida stanza dalla quale ogni mattina “Trase u suli”.

La valigia è pronta, lo scrigno con la collanina appartenente alla defunta madre Lucia pure, poi, la colletta, soldi presi dal petto, dalla scarpa o semplicemente dal borsellino, quest’ultimi sono quelli di Bettina, che gli regala ben 300 euro, il carillon, il cuscino della culla, il primo maglioncino ed il bambolotto di Charlie Brown, ed ancora i dentini di latte e le favole della buonanotte. Ecco, Arturo è pronto per andare…un ultimo sguardo, un ultimo saluto… e poi la parola “Mamma”
che fa girare tutte e tre di scatto, ancora un ultimo saluto prima che il suono della banda lo catturi e lo accompagni verso il suo nuovo destino.

Madri, amiche, nemiche, compagne, colleghe…semplicemente donne. Donne che si alleano, vivono insieme e decidono ciò che è meglio per Arturo, quel figlio adottato da tutte e tre, senza pensarci un attimo, come dono d’amore nei confronti della loro amica Lucia. Madri sin dal nome “nomen atque omen” diceva Plauto. Anna, Nuzza e Bettina, ossia Anna la madre di Maria, Nuzza o Annunziata cioè Maria e Bettina o Elisabetta la cugina di Maria, insomma le donne dell’infanzia di Gesù/Arturo “la stella più luminosa” (così come è definita la stella della costellazione del Boote).

Suggestivo il fermo immagine di una maternità trina, che abbraccia la purezza e l’ingenuità di un ragazzo che pare anche comprendere la necessità di andare via da quella casa, ed in qualche modo di crescere, raccogliendo i suoi giocattoli e vestendosi per la prima volta, in
maniera autonoma. Un distacco sofferto ma inderogabile. Donne unite anche dalla necessità economica e da quella scelta lavorativa che fa dei loro corpi oggetti, che si mostrano, che ostentano una sessualità non necessariamente sensuale ma semplicemente primitiva, che si offrono allo sguardo di un pubblico chiamato suo malgrado ad osservarli.

L’accenno alla violenza perpetrata nei confronti di Lucia da parte del corteggiatore/cliente e la sottolineatura del senso di colpa delle altre per non aver denunciato il fatto, è un valido esempio di ciò che ancora spesso accade in ambienti degradati, dove la violenza domestica pare sia la norma e tutto venga minimizzato per evitare ritorsioni o azioni violente ben più gravi; dove si tace per paura e non si denuncia per
sfiducia nelle istituzioni.

Il tema della disabilità è affrontato senza enfasi, non c’è retorica né pietismo, c’è solo l’urgenza di prendersi cura di una creatura che necessita di affetto e di assistenza, quel “fare” spontaneo e naturale non necessariamente delegato ad una madre biologica ma ad una, ed in questo anomalo caso a tre “donne”, che si donano, si offrono con generosità e si privano anche della propria dignità pur di affrontare il domani, esistere e resistere.

Emma Dante, a suo modo, restituisce potere ai sentimenti, all’essere umano e ci consente di andare oltre la forma, la grezza superficie, a scavare in terreni aridi nei quali trova pur sempre rivoli di cruda poesia. La scelta di recitare parti del testo in dialetto siciliano, per l’esattezza quello palermitano (n.d.r. Emma Dante è nata a Palermo), è quasi come un marchio di fabbrica che le consente di contestualizzare e rendere prezioso quel linguaggio ricco di contaminazioni, che diventa suono, melodia, che solca il terreno e dissotterra scheletri, violenze
familiari, frutto di arretratezza culturale e morale.

Il dialetto che da suono si fa racconto e da melodia narrazione, costruisce una vera e propria partitura, che insieme al ritmo sottolinea emozioni e trova un suo fondamento interpretativo ed un suo peculiare significato. Evidente il riferimento a quel teatro nel teatro, che nasce con Aristofane e Plauto, che racconta, intreccia, rimanda a luoghi e a tempi lontani, ma che a differenza di Pirandello non sfugge dalla realtà oggettiva e non si nasconde dietro un mondo irreale, ma l’affronta e
l’analizza, con la dichiarata volontà di manifestare  l’importanza di prendersi cura di qualcuno, anche se quel qualcuno non ci appartiene, e di fornirgli gli strumenti giusti per poter divenire autonomo ed infine, restituirlo al mondo non appena ci si è resi conto che è pronto a volare. Dunque, è forse questa la vera “Misericordia”?

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immagine di copertina La memoria aiuta il respiro delle parole

La memoria aiuta il respiro delle parole

Visioni
di Gigi Mangia

Il 27 gennaio, ricorre la Giornata della Memoria, voluta da un padre dell’Europa, quale fu Carlo Azelio Ciampi. È una giornata rivolta ai giovani per non dimenticare, ma anche per crescere nello studio e avere la conoscenza della Storia. La memoria vive e conserva la storia. Il respiro delle parole apre la mente alla visione dei luoghi e dei volti.

Le parole hanno la forza di far vedere i segni distruttivi della guerra sulle città. Sono la voce della violenza degli esclusi e dei mutilati. Le parole raccontano i segni delle torture dei corpi disperati nei lager.

Le parole sono il dolore muto dei bambini in cammino a piedi nudi nel ghiaccio del freddo inverno.

Le parole sono anche la storia di chi muore in mare senza lasciare un segno.

Ancora le parole raccontano i corpi dei prigionieri ebrei finiti in cenere nelle camere a gas naziste.

Il respiro delle parole serve per conoscere e sentire la storia e quindi per avere la capacità di partecipare e non voltare le spalle all’evidenza del dolore e della perdita dei valori civili.

Senza memoria la mente finisce nel buio e l’uomo perde la capacità di ascoltare. Ascoltare le parole aiuta a fare il cammino con gli altri verso un futuro senza la paura del diverso e il pregiudizio della pelle.

Carlo Azelio Ciampi credeva ad un’Europa unita. Per rendere possibile il suo sogno, spese tutte le sue forze.

Il presidente Ciampi capì che, per raggiungere l’unità politica, l’Europa dei popoli doveva fare i conti con la storia del secolo “breve” e con le ferite dei morti delle due Guerre Mondiali.

Per fare la nuova Europa per Carlo Azelio Ciampi bisognava avere la memoria del passato e soprattutto saper respirare le parole della storia.

La storia non si cancella.

Così nei versi giovanili il poeta Carmelo Bene:

“no, non stupirti

delle pagine audaci

che mente umana ha scritto.

Sono ruderi. Al loro posto

un tempio sorgerà.”

Carmelo Bene, Poesie Giovanili, Adriatica Editrice Salentina, Lecce 2009.

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immagine di copertina La variante Omicron mette a dura prova la genitorialità e la scuola già in grandi difficoltà

La variante Omicron mette a dura prova la genitorialità e la scuola già in grandi difficoltà

Visioni
di Gigi Mangia

Il Governo di Mario Draghi, al suo insediamento di un anno fa, aveva scommesso di tenere la scuola aperta e la didattica in presenza. Per la scuola il Governo ha fatto molto, investendo soldi e riconoscendo centrale e strategica, la formazione dei giovani. La lotta contro la pandemia del Coronavirus si è complicata, è diventata più difficile
con le varianti, soprattutto con Omicron il cui contagio interessa i
preadolescenti, compresi i bambini. La comunicazione degli esperti e delle agenzie non è stata chiara ma ondivaga e contradittoria. Così: “il Coronavirus non è una minaccia per la salute. Gli aerei “CDC” richiedono la quarantena per i viaggiatori internazionali. Non toccate le superfici, non avete bisogno della mascherina, al contrario dovete metterla. Le superfici sono rischiose evitate di toccarle”. L’ultimo decreto del Governo del 5 gennaio, non ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, con le diverse modalità delle quarantene dalla scuola dell’infanzia alla superiore di secondo grado, ha ulteriormente aumentato la confusione coinvolgendo le famiglie, le quali si trovano nel disordine più
completo.

Ora non ci deve sorprendere se le persone sono disorientate su come affrontare il problema e avere fiducia nella scienza e quindi nel vaccino. Bisogna superare la paura e avere fiducia nella scienza. Un genitore per vaccinare il figlio deve credere, deve essere certo di decidere per il bene e per la salute del proprio bambino; deve essere
aiutato a superare il trauma della puntura del proprio figlio, infine deve essere portato a credere che solo il vaccino può superare e favorire una crescita sana e regolare per il figlio. Il genitore deve essere guidato a portare fuori e lontano dalla paura del virus il figlio, curando e promuovendo relazioni sociali come il gioco, la vita di comunità, la partecipazione alle attività culturali. L’isolamento oltre ad essere una malattia, è anche la causa della perdita di autostima, fondamentale per superare la paura di non farcela. Essere genitore oggi è davvero impegnativo, perché si è chiamati ad avere un ruolo inedito nell’educazione e nella crescita sociale ed intellettuale del figlio causato dalla pandemia, la quale ha cambiato le regole di come abitare
lo spazio e vivere il tempo. Per superare la crisi, bisogna credere e avere fiducia nella e per la scuola, in particolare, mantenere la didattica in presenza perché il sapere, il conoscere e il fare, sono tutti verbi di comunità. La scuola è il tempo della vita in cui non si è mai soli, ma si vive sempre di relazioni scambiando sentimenti, gesti e parole. La scuola è la casa dove l’essere da bambino diventa uomo: essere sociale.

Un felice ritorno a scuola e un buon inizio di anno scolastico 2022.

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immagine di copertina Evitare il rischio di uccidere  due volte il nostro mare

Evitare il rischio di uccidere due volte il nostro mare

Visioni
di Gigi Mangia

Sostenere la conoscenza, tenere gli occhi attenti e la mente aperta. La Terra, il clima, la natura, la nostra vita dipendono dal mare. Ne abbiamo abusato e siamo stati incapaci di rispettarlo. Abbiamo costruito dove non dovevamo farlo. Nella nostra incoscienza abbiamo buttato nelle sue acque rifiuti di ogni genere e i fondali, sono oggi discariche che non si vedono e sono la morte del mare.

È la plastica ad essere la causa principale sia della morte del mare che della morte dei pesci. L’aumento della temperatura dell’acqua, la plastica e rifiuti industriali, hanno causato la prima morte del mare. Ora c’è un secondo pericolo, una seconda morte per il mare: costruirvi grandi impianti industriali di pale eoliche alte 250 metri, come si vuole fare nel basso Adriatico, tra Otranto e Santa Maria di Leuca.

La costa Otranto-Leuca è la più bella d’Italia e il suo paesaggio è fra i più belli dell’intero Mediterraneo in Europa. Il danno delle grandi pale, non è solo lo sfregio al paesaggio, ma è anche un danno gravissimo alla salute del mare nel canale d’Otranto fra Italia e Albania. Lì, grazie alle acque non ancora inquinate, vivono meravigliosi delfini, la cui presenza è incompatibile alle pale eoliche piantate nella profondità
del fondale. La presenza dei delfini non è solo la resistenza della bellezza, ma è anche la felicità unica di poter fare il bagno con loro. I delfini sono il termometro della vita del mare, misurano infatti, la salute delle sue acque. La scelta è scellerata per il mare, dannosa e distruttiva per l’economia turistica dell’intera Puglia.

Il mare è stato trascurato e sacrificato. La legge dei parchi marini è stata disattesa, stabiliva infatti la costruzione del 30% di parchi per tutelare le coste e le acque. Ad oggi invece,i parchi marini sono inferiori al 7% e siamo il Paese del turismo culturale del mare.

Mi chiedo se la transizione energetica delle fonti rinnovabili debba essere sempre pagata dal sud e, in particolare, dalla Puglia. Chi deve indagare sulle conseguenze di un impianto industriale in mare, come quello eolico, che nascerebbe davanti alla città d’Otranto e a Porto Badisco, sbarco di Enea? Gli scienziati non hanno il dovere, forse, di rispettare le risorse e la vocazione del territorio? Il PNRR prevede davvero la distruzione del paesaggio del mare salentino e della Puglia o è, forse, ancora causa della debolezza e dell’incapacità della nostra classe dirigente inadeguata alla grande sfida della transizione ecologica? La conoscenza non deve avere sempre occhi attenti e mente aperta per vedere il futuro?

Bisogna lottare unirsi ai sindaci per non uccidere due volte il nostro mare e per non perdere il piacere di vedere sorgere al primo mattino la luce rosa d’Oriente:

“La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.

Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.”

Versi della poesia “Il Mattino” di Cesare Pavese.

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immagine di copertina Una civiltà senza cuore

Una civiltà senza cuore

Visioni
di Gigi Mangia

Mi chiedo: quale Natale può vivere un bambino innocente e senza colpa in una civiltà senza cuore, che chiude gli occhi per non vedere e gira le spalle per disinteressarsi della sua vita crudele di indifferente abbandono?

Sul Corriere della Sera del 29/11, Lorenzo Cremonese, nel suo servizio in Afghanistan, scrive “nel Paese dei talebani, all’estremo dell’economia, ci sono almeno un milione di bambini che rischiano di morire di fame. Ci sono genitori incapaci di dare cibo ai loro figli e vendono quindi, i bambini per 500 dollari, mentre le bambine sono vendute a 1500 dollari, destinate ad essere spose in tenerissima età”.

Ai confini fra la Polonia e la Bielorussia e lungo la rotta dei Paesi Balcani ci sono bambini che muoiono di fame e di freddo. I loro volti sono già invecchiati dal freddo. Le rughe, gli occhi chiusi e i pochi capelli, sono i segni della violenza del freddo e della fame. La loro casa è il buio gelato. La loro stanza dei sogni è il bosco popolato da ombre spaventose che interrogano il freddo della notte, che dura e non finisce mai. Sono bambini, tutti nati per pagare il conto di una guerra di cui non hanno nessuna responsabilità e neppure hanno scelto di vivere.

Mi chiedo: quale può essere l’orizzonte affettivo di un bambino a cui è stato negato di vivere e sognare, di giocare e studiare, di amare ed essere rispettato, di avere una mamma, sentire la sua voce e imparare da lei le parole per vivere. Dopo l’inferno dei bambini abbandonati, senza avere avuto un destino, quale sarà la società del futuro se nelle vene
della storia scorre odio?

Continua ad avere senso, la festa del Natale, di una civiltà senza cuore? Sono tutte domande che rientrano nell’interesse del teatro, dove la grammatica della creatività può rispondere e può anche indicare una strada: cancellare la vergogna di chiudere gli occhi per non vedere il
dolore dell’altro perché è lontano, oltre la nostra frontiera.

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immagine di copertina Nel teatro l’albero <br> di Eugenio Barba

Nel teatro l’albero
di Eugenio Barba

Critica
di Gigi Mangia

Teatro Koreja e l’Odin Teatret di Eugenio Barba, condividono l’organizzazione del fare e vivere il teatro, di studiare, di lavorare e fare ricerca, di stare nella storia e non chiudere mai le porte del teatro alla società. Eugenio Barba è un maestro, una forza di sperimentazione nel teatro, un’intelligenza profonda e consapevole dei conflitti, compreso quello della guerra fra Ebrei e Musulmani.

L’albero, nel suo frutto, segna il passaggio dall’utopia all’anarchia. Un messaggio, questo, politico di un intellettuale di 85 anni che vale più di una speranza, ha la forza di un testamento. Eugenio Barba, nel suo lavoro, non cerca le ragioni della guerra ebraico-musulmana, ma le radici della divisione delle due fedi e il fallimento di Dio nelle rispettive fedi.

Il maestro dell’Odin Teatret, rifiuta la puzza della menzogna per liberarsi del male del potere della religione come conflitto e spargimento di sangue. La strada è quella dell’albero. L’albero indica il passato e il futuro. In esso vive la tradizione e la continuità del tempo.

L’albero, infatti, ha le radici nella terra, vive della luce e cresce con l’acqua e l’aria. L’albero unisce il buio e la luce, il giorno con la notte. gli uccelli abitano il cielo e l’albero è la loro casa senza mura ed è lo spazio libero dove scoprire e vivere l’assoluta libertà.

L’albero non secca, la terra non fa mancare il suo nutrimento al frutto per permettergli il passaggio: dall’utopia all’anarchia, dove l’uomo non ha più bisogno di combattere per difendere la fede, perché si è liberato del bisogno di avere un Dio. Il teatro di Eugenio Barba è quello del pensiero libero, dove l’arte della creatività disegna il futuro dell’uomo libero nella Legge.

Dovevo queste righe di riflessione a Eugenio Barba. Lo avevo promesso giovedì, quando ho potuto apprezzare e seguire il suo capolavoro.

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