Calendario

March 2021

Non sono previsti spettacoli per il mese selezionato.

immagine di copertina Giornata internazionale della poesia

Giornata internazionale della poesia

Visioni
di Gigi Mangia

Il Teatro Koreja ha, nel suo nome, la figura di una giovane danzatrice: così, nella “Giornata dei poeti”, il pensiero corre al sommo poeta, Dante Alighieri, il quale fece della donna la figura angelo, “intelletto d’amore”, assegnandole il ruolo di guida e quindi di salvezza dell’umanità.

Nella “Vita Nova” il poeta fiorentino disegna la figura della donna e nel Paradiso della Commedia le assegna il compito di guidare il poeta verso la visione di Dio. La donna angelo diventa purezza, “intelletto d’amore”, principio di salvezza. .

Sono passati settecento anni dalla morte del poeta che diede all’Italia la lingua. Rimangono ancora vive le sue idee sulle debolezze umane e le vie per superarle.

La ricerca della conoscenza della natura dell’uomo è senza tempo e non ha un calendario. Dante, nel suo messaggio, non è stato ancora superato, per questo porta ancora in scena la storia dell’uomo.

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina Il mio posto a teatro

Il mio posto a teatro

Visioni
di Gianni Pignataro*

Il mio posto a teatro è il C16, fila C poltrona numero 16 della platea di Koreja. O meglio, lo era prima della pandemia. Mi ci sarei potuto andare a sedere sopra anche al buio, lo avrei trovato comunque ad
occhi chiusi prima della pandemia. Poi la pandemia ha cambiato le cose, ha fatto da spartiacque. C’è un prima e ci sarà un dopo, come per l’anno del Signore.

Di più, la pandemia ha avuto un impatto sull’umanità superiore alla venuta del Cristo, almeno nel breve periodo. Dopo trentatré anni di vita di Gesù erano in pochi a conoscerne l’esistenza, a poterne apprezzare la grandezza e la portata rivoluzionaria del pensiero e del vissuto. Certamente i suoi discepoli si prodigavano nel diffondere il Verbo, ma sarebbero stati necessari molti e molti anni perché le sue parabole, la sua predicazione, il suo esempio raggiungessero un numero rilevante di abitanti del pianeta.

Quanto alla pandemia invece sono passati appena una cinquantina di giorni da quando si sono diffuse le prime notizie relative al virus fino al momento, in cui tutti abbiamo imparato nostro malgrado a conoscere il significato della parola lockdown. E una nazione dopo l’altra miliardi di persone (praticamente il mondo intero con poche, fortunate eccezioni)si sono visti improvvisamente, inaspettatamente costretti a vivere una vita nuova, tutta diversa rispetto a prima.

Un’esistenza privata della sua consueta pienezza, per certi versi anche eccessiva. Questo non si può più fare, quest’altro è proibito, questo comportamento è assolutamente vietato, questo invece è da
evitare. Le nostre vite si sono di colpo come svuotate. A dirla tutta anche di tanta roba inutile, sia pure vendutaci dal sistema in confezione regalo. Insieme a tanti orpelli siamo stati tuttavia obbligati a rinunciare anche a quanto rappresenta ciò, per cui vale la pena vivere. Le nostre attuali esistenze sono innegabilmente impoverite, assottigliate, rarefatte. Sono come asfittiche, sospese.

Il mio posto a teatro Koreja non esiste più. La platea è stata modificata, in ottemperanza a uno dei vari Dpcm. Con uno zelo forse anche maggiore di quello richiesto, tanta la voglia di non mettere a rischio la salute del pubblico e di scongiurare la chiusura del teatro, salvaguardando il proprio lavoro. Con senso della responsabilità e scrupolo la capienza del teatro è stata ridotta per ottenere il necessario distanziamento fisico e pur di proporre lo spettacolo in assoluta sicurezza un certo numero di posti è stato cancellato. Tra questi il mio caro C16, dopo tanti anni di fedeltà reciproca. Dire che ci ero affezionato non rende a pieno l’idea. Neanche dire che ci ero molto affezionato. E’ che quello era proprio il mio posto, il mio punto di vista sul teatro.

Ma tant’è, “così vanno le cose, così devono andare” canta il poeta. Me ne sarei fatta una ragione, avrei scelto un altro posto pur di continuare a vedere il teatro. O meglio a fare il teatro, sia pure da semplice spettatore. Perché non è un segreto che il pubblico guardi l’attore che a sua volta lo guarda, ascolti chi sta sul palco, il quale reciprocamente lo ascolta. Magicamente si crea un fluido, si genera uno scambio di energia. Il teatro accade soltanto se a qualcuno sul palcoscenico corrisponde qualcuno in platea, altrimenti non accade.

Dunque non può esistere quella sorta di Netflix del teatro (come si chiama, Chili?), una vera e propria bestemmia pronunciata improvvidamente da chi evidentemente non conosce neanche per sentito dire la sacralità del rito teatrale. Perché chi vi ha assistito anche una volta soltanto sa bene che quello visto in tv non è teatro. Sa perfettamente che certe emozioni, certi incanti prendono forma solo in presenza, quando può realizzarsi l’alchimia tra attori e spetta(t)tori.

Per favore, rivoglio il mio C16 a Koreja, il mio posto a teatro. La mia fame spirituale non è diversa da quella del praticante, che la domenica ha ripreso tranquillamente da mesi a frequentare il suo luogo di culto preferito. La mia voglia di bellezza non è inferiore a quella di chi visita i musei, oramai riaperti da tempo, almeno in zona gialla. La mia esigenza di ricrearmi (si, anche questo significa andare a teatro) non ha meno importanza rispetto al discotecaro, che ha ballato tutta l’estate al ritmo di UNZ UNZ UNZ a 120 bpm. Se ci sono obblighi di carattere sanitario, necessità di evitare gli assembramenti, ci siano per tutti. Se ci sono possibilità di rinfrancare lo spirito, parimenti ci siano per tutti. Senza deroghe. Non è tollerabile che attività di comunità, assolutamente assimilabili sul piano del rischio epidemiologico, vengano regolamentate in maniera diversa. Sarebbe come accettare la distinzione tra cittadini di serie A e di serie B. E questo è evidentemente irricevibile.

Del resto la cultura e l’arte, nell’immaginario collettivo di questo nostro strambo paese, non vengono affatto incluse tra i bisogni primari. E’ opinione comune che si tratti di una sorta di hobby, che banalmente non ci si mangi, come ebbe a dire un ministro dell’economia fortunatamente appartenente al passato. La sensazione sgradevole è che si tratti di un miserevole calcolo della serva, che si misurino le ragioni e gli argomenti degli uni e degli altri in funzione del numero di voti potenziali, vale a dire in base al consenso elettorale. Che tristezza, se i teatri restano chiusi esclusivamente perché i teatranti non riescono a fare lobby come i gestori delle sale da ballo e i ristoratori oppure perché i fruitori del teatro sono numericamente meno dei fedeli di Santa Romana Chiesa.

Scriveva Julian Beck (senza maiuscole e senza punteggiatura) che “la gente va a teatro per la lampada di omar dove altro la troverebbe la gente va a teatro per vedere il drago sconfitto la gente va a teatro per mescolarsi al vento la gente va a teatro per le chiavi della salvezza la gente va a teatro per imparare a respirare la gente va a teatro per la liberazione sessuale per la liberazione spirituale per il messaggio la gente va a teatro non per cattive intenzioni”

Siate ragionevoli o almeno siate gentili, ridatemi il mio caro vecchio C16 a Koreja.

In foto: Vita nel 2022 – Illustrazione di Walter
Molino (1962)

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori Guarda il video https://vimeo.com/521344407

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina Il corpo è l’unico teatro che mi resta

Il corpo è l’unico teatro che mi resta

Visioni
di Veronica Miceli*

Seduta sulla panchina opposta vi guardo:  cosa avete da non dire?

Il corpo è l’unico teatro che mi resta, per guardarvi, per non sgretolarmi, nonostante i continui lock down e quarantene.

Vi vedo attraverso me, senza la quarta parete. Come in teatro. Come quando mi sedevo in Platea, fila B, Posto 16 accanto alla mia amica Tina, sognatrice come me. Vi sento attraverso il corpo che non dice, distanziato e in autocombustione. Occhi al vento e bocca coperta. Qui sembra non esserci niente, invece, i loro corpi, davanti a me, parlano. Sono silenzi incarnati.

“Pensavo che questo Covid ci avesse messo a pensare, ripulire le anime per farci capire i veri principi e valori della vita. Dovevamo essere più vicini, sorridere, capire che la vita è bellissima. Dovevamo iniziare a pensare che una passeggiata poteva essere importante, vedere i fiori…esplorare le case abbandonate, come quando ero piccolino”.

“Invece, abbiamo tutti aumentato la nostra invidia del prossimo, delatori e segnalatori, ragioniamo di economia fingendo di capirne, ci lamentiamo…ma questo lo facevamo già, solo che ci lamentiamo di più…mentre i poveri restano più poveri e i ricchi ancora più ricchi…”

Mentre vi guardo parlare in silenzio, stringo il mio “Teatro in tasca”, l’ultimo della Stagione Teatrale 2019/2020.Lo porto sempre con me, come un amuleto, nel portafoglio sguarnito di denaro e pieno di tessere fedeltà.

L’assenza di quarta parete mi manca. Mi manca la sua presenza di ombra, il percepire la continuità emozionale tra me e gli attori. Mi manca il travaso di me sul palcoscenico.

Sento la mancanza quando ci sono, quando sono presente a me stessa e fuggo dalle video chiamate e chat varie che popolano la mia giornata. Il mio corpo teatro è diventato troppo pieno di personaggi e storie. Tracima. Come l’acqua in una brocca, mentre rimango a guardare assetata, mi sento disabitata, svuotata dalle miei emozioni che hanno bisogno di ricevere un nome. Il teatro dava loro un nome. Aveva la magia di svuotarmi e riempirmi di nuovo, in una fluidità catartica.

Aveva la capacità di rendere materiale la mia fantasia e darmi gli strumenti per comprendere il nuovo volto di chi incontravo, gli avvenimenti della vita e i miei sogni.

Sento ancora di più la mancanza nell’incomunicabilità delle mascherine, che lasciano in vista solo occhi impauriti come foglie marroni al vento gelido del nord. Le pupille agitate dal mare in burrasca e la barca sociale alla deriva.

Ma l’agitazione di quel mare negli occhi, chi la vede? Se non ci sono
contenitori simbolici, come il teatro, per trattenere la sua effervescenza. La schiuma frizzante si disperde, mentre il teatro rende vivo nel tempo anche ciò che non vediamo immediatamente, ma abbiamo visto e ci portiamo dentro come archetipo.

Non pensate che il teatro è il luogo dell’archetipo? Sì, il luogo in
cui il lupo, il falco, l’aquila, l’istrice, il serpente, la libellula, l’elefante, la balena, la volpe, il fuoco, l’acqua, tutta la materia visibile e il suo collante, concentrano la loro forza nell’uomo. Intendo le forze terrestri e universali della vita, del non detto e del tutto esplicito, dell’umanità che ci abita a partire dai sentimenti di odio fino all’amore più sublime.

Sento l’assenza del teatro quando vedendo i miei più cari amici comincio a sentirli estranei mentre, al contrario di prima, si sta erigendo nella realtà, quella quarta parete tra attore e spettatore, che non volevamo di certo.

Adesso vivo questo nel mio corpo, deprivata dello spazio esterno da
abitare socialmente e in cui travasare le emozioni e le narrazioni generatrici di cultura.

Che siamo senza cultura, senza effervescenza e prossimità emotiva?
Senza contatto, la vostra bocca mi è estranea, insieme ai vostri pensieri. Vi percepisco come distanze, seppure siete due metri da me, seduti su quella panchina, annoiati dalla vita.

Seppur lo stato politico e di “igiene publica” di sicurezza adesso ce
ne vuole privare, io abito il teatro nel mio corpo, in strada, in casa, a
lavoro, a scuola, nella bottega vicina. Io abito l’assenza di quarta parete in teatro e in strada, nel teatro della vita. Qui sembra che la quarta parete si stia formando. La vediamo tutti la divisione: tutti lì nell’ombra un po’ smarriti, con la sensazione di essere prigionieri in una gabbia aperta.

Questo è il teatro ora, la strada, la vita reale: voi che non comunicate seppur seduti vicini, in una panchina.

In foto: Setting,
Opera di Steinumm Thòrarnsdòttir in Westlake Park, Seattle.

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori

Guarda il video https://vimeo.com/521344407

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina Il 27 Marzo il sipario chiuso i palchi vuoti

Il 27 Marzo il sipario chiuso i palchi vuoti

Visioni
di Gigi Mangia

Da qualche giorno mezza Italia è in zona rossa ed è sicuro che i teatri non potranno aprire.

Il presidente Mario Draghi, nelle comunicazioni al Senato e alla Camera per chiedere la fiducia al suo Governo, argomentando l’importanza della cultura ha affermato che l’Italia vanta un patrimonio culturale unico nel mondo, ciò comporta che la cultura meriti importanti investimenti. Nella cultura, dice Draghi, l’Italia è l’Italia, cioè il nostro paese è forza strategica per cambiare e superare la crisi causata dall’epidemia la quale ha cambiato radicalmente sia la società sia l’economia. Il Presidente Mario Draghi conosce molto bene il ruolo della cultura italiana nel mondo e quindi sente l’importanza e il valore economico che l’Italia può sfruttare utilizzando al meglio proprio la cultura, il 27 marzo, giornata mondiale del Teatro, i palchi saranno vuoti e il sipario chiuso, il teatro continuerà ad essere senza pubblico.

Sarebbe importante utilizzare il 27 marzo come giornata di discussione per approfondire il valore e il ruolo del teatro in un modello di rapporti sociali che si incarica di superare la crisi mettendo in agenda il tema di un nuovo modello di organizzare la città e la partecipazione agli eventi culturali. Sarebbe utile studiare come sfruttare con intelligenza i fondi europei del recovery plan e infine chiedere a Draghi di ascoltare le imprese culturali per progettare nuovi interventi, valorizzando l’esperienza di chi lavora su campo.

Il mondo della cultura per sostenere il turismo organizza 1500 Festival: non è solo una grande operazione di promozione dei valori e delle tradizioni del nostro Paese, ma sono anche miliardi di euro per l’economia, lavoro buono che premia la lunghissima tradizione dell’Italia nel fare e nel promuovere cultura.

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina Se la finta realtà è concreta fantasia

Se la finta realtà è concreta fantasia

Visioni
di Marinella Miceli*

Essendo un’appassionata, una spettatrice ed un’ insegnante di scuola dell’infanzia, provo una grande malinconia. Sono convinta che gli spettacoli teatrali insegnino a superare le paure, come quella del buio. Per questo accompagnavo spesso i miei piccoli al Teatro Koreja di Lecce.

Ricordo i loro abbracci e le strette di mano quado si spegnevano le luci della sala, le loro faccine di stupore nel vedere gli effetti dei fari luminosi e le grasse risate per i mostri finti o i pagliacci buffi.

Ritengo che la chiusura prolungata dei teatri abbia negato ai nostri bambini la possibilità di immaginare e di entusiasmarsi di fronte a realtà spettacolari intimamente vissute. Il mondo favoloso, le trame fiabesche, il mescolarsi dei colori ed i dialoghi filtrati dalla loro fantasia soggettiva capace di trasformare la finta realtà in “concreta fantasia”, sono spunti educativi indispensabili per consentire lo sviluppo di una sana creatività.

Mi auguro che i teatri possano essere riaperti al più presto, garantendo contemporaneamente sicurezza e presenza, per consentire a grandi e piccini di tornare ad occupare le sale e godere dell’apertura del sipario, ormai da  troppo tempo abbassato.

Fra foto e video abbiamo raccontato che il teatro ci manca:

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori Guarda il video https://vimeo.com/521344407

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina L’arte non può andare a dormire

L’arte non può andare a dormire

Visioni
di Paride Napolitano*

Pensando alla chiusura dei teatri e a quello che tutti gli operatori di questo settore stanno vivendo, mi vengono in mente, chiare e lampanti, le parole di Konstantin Stanislavskij. Attore, regista e pedagogo, egli visse appieno la Rivoluzione del 1917 e in quel periodo di tumulti e guerre civili, definì i doveri dell’artista in una società.

Nei suoi appunti per un articolo, “L’educazione estetica delle masse popolari”, lanciava un messaggio ai leader della Rivoluzione e asseriva: “Uno dei sensi più importanti dell’uomo, un senso che lo distingue dagli animali e lo innalza al cielo, è quello estetico” riferendosi ovviamente all’arte. Ma nel 1922 egli si dimostrò ancora più risoluto, lanciando un appello che, oggi, risuona potente:

“Teatro per gli affamati! Fame e teatro! Non c’è alcuna contraddizione in questo. L’arte non è un lusso nella vita della gente, ma una necessità quotidiana. E’ qualcosa di cui non si può fare a meno, qualcosa di assolutamente necessario per un grande popolo. Il teatro non è uno svago dei perditempo o un gioco piacevole, ma un’impresa culturale della massima importanza… Non si può mettere da parte il teatro per un po’, chiudere le porte ai suoi lavori, fermarne la vita. L’arte non può andare a dormire per essere risvegliata quando ci pare e piace. La morte dell’Arte è un disastro nazionale …Il tempo passerà e la fame verrà sconfitta. Le ferite si rimargineranno. E allora dovremmo essere ringraziati per aver salvato l’Arte in un periodo di martirio. Siamo tutti felicissimi di offrire oggi l’Arte che salviamo per la gente, l’arte che aiuta la gente che muore di fame”.

Certo, la chiusura dei teatri è dovuta a una pandemia, non abbiamo a che fare con guerre civili. Ma personalmente trovo particolarmente attuale il discorso di Stanislavskij.

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori

Guarda il video https://vimeo.com/521344407

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina La goccia che scava la roccia

La goccia che scava la roccia

Visioni
di Valeria De Rinaldis*

Vorrei presentare la mia storia relazionale con il teatro, prima di esprimere una riflessione sulla sua attuale situazione. Sembra che io sia messa così per caso tra il gruppo degli spettatori. Infatti, non vado a teatro da chissà quanti anni!

Lontana per diversi motivi, personali, familiari, economici.

E’ da tanto che non godo del buio e del silenzio che arrivano sfumati in sala con il sottofondo di “shh shh”. Quel buio e quel silenzio che mi facevano chiedere “mi piacerà?”

Alla fine, ho sempre salvato qualsiasi opera, anche la più noiosa (mi consentiva un sonnellino in santa pace!), anche la peggio interpretata (miglioreranno le loro performance!!), anche la più provocatoria (potrei scandalizzarmi!!!), perché tutte mi avevano trasmesso un’emozione, sia essa positiva o negativa.

E’ proprio questo che mi manca: emozionarmi! Emozionarmi senza conseguenze, provare sensazioni profonde nel buio e nel silenzio, per poi uscire nella luce e pian piano ristabilizzare il cuore e il respiro sul ritmo quotidiano della vita, che è tutt’altra cosa.

E posso ora partire con la mia riflessione, iniziando proprio dall’emozione. La crisi partita nel 2020, ha stravolto tutti gli aspetti della nostra vita, a partire dalla quotidianità, per colpire la socialità, l’economia, il lavoro, la salute e gli affetti.

Dunque, il ritmo quotidiano della vita, che è tutt’altra cosa dal teatro, durante la pandemia ci ha riservato emozioni fortissime, per lo più negative, di grande incertezza, spesso dolore e perdita, paura e scoraggiamento, intervallate da quelle di speranza, di raccoglimento, di ripresa dal dolore e dalla perdita. In questo contesto, lo spettacolo, sia esso serio, semiserio o comico, sia esso cinema, danza o teatro, sia esso all’aperto o al chiuso, sarebbe medicina per l’anima.

In questo contesto, lo spettacolo, sia esso serio, semiserio o comico, sia esso cinema, danza o teatro, sia esso all’aperto o al chiuso, sarebbe medicina per l’anima.

Ma è una terapia non somministrabile in un contesto socio-politico in crisi, perché la cultura è sottile e delicata e, davanti al macigno dei mass media, si ritira all’angolino; la storia però ci insegna che, essa, come goccia che scava la roccia, è capace di dilagare nuovamente con la sua forza intelligente. Ma ancora non è il momento! Ora…c’è crisi!

Concludo, ancora con la mia esperienza. Avevo 8 anni quando morì mio nonno. Era il 1980.

Nello stesso periodo, morì anche il cinema nazionale e internazionale e la piccola sala cinematografica del paese, il cui titolare era proprio mio nonno. Dopo essere stata ceduta a chi, senza scrupoli, mise il manifesto di un film pornografico accanto al manifesto del suo funerale, chiuse definitivamente i battenti e noi ci chiudemmo nelle nostre case con la TV accesa a tutte le ore a fare zapping!

Poi, il cinema si è ripreso e oggi…è di nuovo in crisi. E’ in crisi anche la televisione e vince su tutto internet, i social e i piccoli schermi degli smartphone. Ho divagato sul cinema, ma il teatro ha avuto e ha tutt’ora la stessa, se non peggiore, sorte.

A questo punto, confido nella goccia che scava la roccia e nel fatto che possa dilagare nuovamente;alla riconquista dei suoi spazi.

Volete sapere perché i fedeli chiedono (e ottengono) la riapertura delle Chiese e i tifosi chiedono (e ottengono) la ripresa del campionato? Perché la Chiesa è potere e il calcio è soldi. Il teatro è “solo” cultura!

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori

Guarda il video https://vimeo.com/521344407

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina Al margine della città, c’è un luogo

Al margine della città, c’è un luogo

Visioni
di Massimo Grecuccio*

Al margine della città, c’è un luogo alieno e familiare. Per entrarvi, guado un piccolo giardino. Ultime sigarette svaporano con i rumori del giorno. Varco la soglia, sono nel foyer,una piazza e una navicella.

__________________________

Qui attendo. Nella china dei giorni finché morte non ci separi sto sempre. Qui invece, per fatale appuntamento, aspetto i simulacri di giorni qualunque.

————————————————

Entro in una zona franca. In scena sospinte da correnti sotterranee un andirivieni di maschere. I corpi e le voci mi inondano, sciolgono il tempo, dragano l’anima. Su tutto aleggia un cimitero sospeso di quadri spenti senza rimedio.

———————————————–

Le ombre dei convenuti si mescolano nella penombra amniotica una comunità fugace mi circonda. Posso infine giocare – con scadenza breve – il ruolo del guardone impunito.

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori

Guarda il video https://vimeo.com/521344407

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina DDT

DDT

Visioni
di Guido de Liguoro*

Ettore Guardafico era Commissario al Dipartimento Divertimenti per Tutti, meglio conosciuto come DDT. Quella mattina era molto preoccupato ma cercava di nasconderlo all’occhio attento delle telecamere. E ci
riusciva benissimo. Era un grande esperto della simulazione, d’altra parte non si poteva arrivare ad un posto così importante, così ambito, superando decine di eliminazioni, senza essere un grande simulatore.

Era finalmente arrivato a un passo dalla realizzazione di tutti i suoi sogni, non poteva permettersi neppure il più piccolo errore, la più piccola disattenzione. Le telecamere che lo seguivano ogni momento erano
implacabili. Guidate da un sistema incorruttibile di intelligenza artificiale erano pronte a cogliere ogni sua debolezza, ogni espressione fragile, ogni sillaba impropria. La settimana prossima il televoto avrebbe finalmente consacrato il nuovo Grande Imbonitore, Insuperabile Buffone, Fonte di Tutte le Emozioni e di Tutte le Lacrime. In gara erano rimasti in due; lui e Serena Allegrini, attuale Commissaria al Dipartimento Affetti Vissuti Intensamente, DAVI in sigla.

I sondaggi prima di tutti i televoto nazionali erano ormai vietati da anni ma tutti continuavano a realizzarli clandestinamente; secondo le sue informazioni era ancora saldamente in testa, la sua strategia aveva portato i risultati attesi e anche più.

L’idea era semplice, gli anni passati come Commissario gli avevano permesso di metterla in pratica in modo diffuso: estendere la partecipazione attiva del pubblico, gli spettattivattori, a tutti i settori dai quali era ancora, ingiustamente, esclusa. Aveva in fondo solamente seguito l’esempio dei vari Master Chef o X Factor senza parlare della Casa del Grande Fratello.

Aveva cominciato dai musei con i concorsi Vinci la Tela, chi avesse votato la più votata tra le opere esposte ne avrebbe ricevuto una riproduzione a grandezza naturale. Tra chi invece aveva votato la meno votata, veniva sorteggiato un fortunato che avrebbe ricevuto un vero falso d’autore appositamente realizzato dal vincitore del concorso complementare “Fallo vero!” tra i falsari più reputati del mercato. Tra i suoi mille progetti c’era quello di un concorso Via la maschera per chi avesse indovinato chi si nascondeva dietro i falsi vincenti. Il fatto che i falsi vincenti andassero ai vincenti veri a lui sembrava filosoficamente sublime soprattutto perché sapeva che una simile considerazione non era politicamente corretta, non era adatta agli spettativattori. Era una delle sue piccole forme di ribellione al sistema che gli consentivano di sentirsene abbastanza estraneo per scalarne consapevolmente i gradini.

Quest’anno era in corso per la prima volta il concorso nazionale Museo Diffuso che affidava alcune opere di grande notorietà a famiglie estratte a sorte che le avrebbero esposte nelle loro case dove sarebbero state mostrate agli spettattivattori naturalmente insieme ad ogni pur minimo accadimento della famiglia. Le famiglie con figlie e figli adolescenti erano orgogliose di metterne in mostra la nascente sessualità, sempre nei limiti della decenza, beninteso. Famiglie fino allora monotonamente affiatate scoprivano hobby strampalati e relazioni sospette. Un enorme successo! Le sei famiglie rimaste in gara dopo mesi di trasmissione ininterrotta su un canale dedicato dove venivano proiettate affiancate, ospitavano: L’origine del mondo di Gustave Courbet, La toilette di Henri de Toulouse-Lautrec, Il David di Donatello (quello di Michelangelo avrebbe posto qualche problema logistico), Marilyn Monroe di Andy Warhol, Il bevitore di Giuseppe De Curtis (Teomondo Scrofalo) e Untitled (for you, Leo, in long respect and affection) 3 di Dan Flavin.

Con lo sport era stato più delicato: aveva cominciato affidando al pubblico, in veste di giudice, la valutazione delle prove degli sport di abilità, pattinaggio, ginnastica, tuffi, poi sostituito con giudizi le misurazioni di salti e lanci, mutuato dal golf il sistema degli handicap per tutti gli sport a punti, dove però l’handicap era attribuito a fine gara grazie ad apposite App. Stava aspettando a breve proposte da un comitato di esperti che stava lavorando sugli sport cronometrati.

Aveva poi fatto rivivere l’esperienza di Masterpiece per una scrittura partecipata dal pubblico di racconti e romanzi, per i saggi non c’era problema, nessuno li leggeva più, e aperto al pubblico la proclamazione
dei vincitori dei premi letterari. Il suo capolavoro era stato eliminare la necessità di leggere i testi in gara per poter votare.

Che cosa lo preoccupava dunque? Quella mattina Giacomo de’ Canti, il suo fedele segretario che aspirava a sostituirlo nella carica, gli aveva sussurrato all’orecchio, lontano dai microfoni la parola chiave che
indicava grane grosse in arrivo.

Guardafico si era infilato nel bagno dell’ufficio non appena l’aveva ritenuto innocuo agli occhi degli spettatori, in fondo andare in bagno non era ancora un segno di debolezza, e sebbene in bagno l’uso delle telecamere fosse assolutamente proibito, si era premurato di infilarsi le cuffiette del telefono simulando un improbabile balletto seduto sul water come stesse ascoltando una delle hit del momento mentre la voce sintetica gli leggeva il rapporto inquietante dei suoi servizi di informazione.

Riguardava i teatri. Non il teatro, quello era ormai rientrato nel novero dell’offerta di intrattenimento diffuso e di valutazione partecipata dagli spettattivattori. Proprio i teatri; i teatri come luoghi fisici. Nonostante le offerte di ingaggi, di sovvenzioni, di partecipazione ai più seguiti programmi, i teatranti si rifiutavano di accettare il buon senso comune e sfidavano il potere del DDT, il suo potere, continuando a costruire possibilità di incontro fisico con il pubblico. Nelle cantine, nei cortili, sulle spiagge, nei posti più improbabili, i teatranti c’erano. Si esibivano. In pubblico. Senza voto!

Ma la cosa più grave che il rapporto gli segnalava era che attorno a queste cosiddette Rappresentazioni Libere si stavano cominciando a notare gruppetti di persone, bambini ma anche adulti, che giocavano a nascondino. Ragazzi ma anche anziani che parlavano di libri letti per davvero, che li leggevano insieme perfino. Vecchie signore che sembravano uscite dai ricordi di sognatori nostalgici cucinavano piatti banali ma, dicevano, buoni, buoni davvero. Ragazzi si baciavano, di nascosto! C’erano pittori che trasportavano su cartoncini ad acquarello quelle scene indecenti. Sembrava che i teatri fossero al centro di una crescente rivolta.

Guardafico si alzò, gli occhi furiosi, dimenticando ogni necessità di simulazione a beneficio di eventuali telecamere abusive. E un imperativo ben chiaro in testa. Bisognava farla finita con i teatri! Prima che la gente cominciasse a voler pensare!

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori

Guarda il video https://vimeo.com/521344407

prossimi Appuntamenti

immagine di copertina Vedere le parole con gli occhiali maschili

Vedere le parole con gli occhiali maschili

Visioni
di Gigi Mangia

Luigi Romani, direttore della sezione “Sinonimi della lingua Italiana” dell’enciclopedia Treccani online, dizionario della lingua italiana più conosciuto nel mondo, vede le parole con gli occhiali maschili e fa un gravissimo errore, da studioso e da uomo di mancanza di intelligenza perché si rifiuta di correggere il suo errore richiesto con una lettera indirizzata alla Treccani firmata da oltre 100 donne impegnate nella cultura.

È un modello, quello di Luigi Romani, maschile, sessista, razzista, superato dalla storia archiviato dalle lotte per l’emancipazione delle donne, dalla dichiarazione di tutte le convenzioni internazionali sul rispetto dei diritti e sul riconoscimento della parità di genere.

Voler considerare sinonimi della parola Donna: “donna da marciapiede, cagna, zoccola, serva” significa perdere il senso della cultura e soprattutto essere fuori dalla storia. Queste parole dovrebbero essere superate. La donna si è liberata di questi stigmi infamanti e si è affermata, superando l’uomo nei ruoli più importanti della scienza, della cultura, della politica, dell’economia. Le donne del XXI secolo sono impegnate nelle missioni spaziali, nella direzione dei centri di ricerca, sono rettori nelle università e sono arrivate anche alla vicepresidenza degli Stati Uniti, con una donna nera, Kamala Harris la quale, ha ragione, ha affermato di non essere la prima. Le parole danno vita al pensiero, lo rappresentano. Le parole sono la sintassi che animano il “genius loci” e rappresentano i volti e i luoghi e promuovono e regolano i rapporti sociali. Le parole hanno scadenza, perdono il significato rappresentativo, sono superate dalla storia, perché sono figlie del tempo.

Nella Francia del secolo scorso, fu una donna ad inventare un sinonimo, molto più elegante di quelli della Treccani: “Donna squillo”. Si chiamava Madame Claude. Il suo talento imprenditoriale fu quello di avere l’idea di sfruttare il telefono per evitare ai clienti noti di esporsi di persona nel recarsi nei bordelli. Fu lei a coniare il termine “ragazze squillo” molto adatto al sistema di prostituzione nato per garantire la massima discrezione sia ai clienti, sia alle “squillo”. La storia di Madame Claude ci insegna che spesso le parole sono la rappresentazione di comportamenti sociali significativi per la storia in cui hanno un tempo e che però non sono sempre valide, ma funzionali alla geografia sociale secondo i tempi e le tradizioni.

Le parole sono come i capelli, cadono o diventano bianche, a volte perdono di significato, altre volte diventano volgari e offensive, addirittura immorali.

Il dizionario Treccani non ha scuse, dovrebbe modificare l’errore commesso, poiché quelle parole non sono sinonimi di donna ma, più che altro, epiteti fuori dalla civiltà e dalla cultura, superate dalla storia.

prossimi Appuntamenti