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immagine di copertina Il tempo della conoscenza

Il tempo della conoscenza

Critica
di Eleonora Lezzi*

È curioso quanto anche nella disperazione, anche nei momenti in cui servirebbe il conforto e la vicinanza, i pregiudizi riescano a costruire comunque muri attorno a noi che in apparenza ci fanno sentire sicuri, ma che in realtà ci lasciano sempre più soli con le nostre fragilità.

Mario e Saleh è un prodotto giovane, con il quale Scena Verticale  e Saverio Laruina, che ne è autore, regista ed interprete assieme Chadli Aloui, ci propongono uno spettacolo che sviscera i luoghi comuni e riprende le parole della gente, le ruba dalla quotidianità e le  ributta in faccia con tutto il loro verismo rivoltante e sfacciato. Quante volte le abbiamo sentite nei giornali, per strada, sul bus… parole su parole a cui si dà fiato senza attenzione. Quanto costa infatti fermarsi a capire e a conoscersi? Quanto tempo ci vuole per scoprire le differenze che ci accomunano? Perché un musulmano dovrebbe voler stare con un cristiano? che cosa ha in mente? Che cosa trama? c’è qualcosa che non va….si, è vero, c’è ed è la paura della diversità, figlia dell’ ignoranza.

Siamo in una tenda dopo un terremoto, in una tendopoli non meglio identificata. Lo spazio è claustrofobico, asettico e impersonale, il personale è rimasto sotto le macerie delle case distrutte dal sisma. Lì dentro c’è rimasto solo il guscio delle persone, pieno di rancore, amarezza, delusione e disperazione. Un’esistenza, quella di Mario, stravolta una volta e ri-stravolta ancora da una convivenza forzata e imprevista, ma soprattutto imprevedibile. Saleh è figlio di arabi, ma è nato in Italia. Parla arabo ed è un musulmano praticante. Ma questo non vuol dire che sia estremista; non vuole dire che sia un terrorista. Perché poi lo chiamiamo musulmano? Noi non ci chiamiamo cristiani, ma solo italiani. Già, perché noi siamo noi e poi c’è il “voi”: il “voi siete quelli degli attentati”, “voi siete pericolosi” e “voi siete diversi”,  questo è il paradigma di base, il muro contro il quale sbattere i pugni. Le parole di Saleh toccano perché sono vere, sentite. Affondano nel vissuto comune di chi viene additato quotidianamente con quel “voi”.

I personaggi entrano ed escono dallo spazio della convivenza forzata e della conoscenza difficile, lo vivono insieme e lo odiano insieme, sfogando l’imbarazzo di quella situazione così scomoda sugli oggetti, buste, zaini e borse che vengono fatte e disfatte, fatte e disfatte ancora e ancora, precarie, come precari sono i rapporti umani. Saleh, il voi, ha scelto di mischiarsi con il noi. Lo ha fortemente voluto e Mario si interroga incessantemente sul perché. Solo alla fine lo scoprirà, svelando il senso di una domanda ricorrente durante tutto lo spettacolo, su cui anche lo spettatore si interroga incessantemente. Alle sue prime repliche, lo spettacolo si mostra intelligibile su più livelli e ci restituisce con abbondante chiarezza un’immagine nuda e cruda, ma piena di speranza. Un lavoro che non si lascia intimorire dal tirare fuori i luoghi comuni, ma li usa per dimostrarci quanto essi siano veri e quanto ci corrompano nel nostro modo di guardare gli altri e il mondo.

*progetto di scrittura critica “Giovani Sguardi”

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