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immagine di copertina L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

Critica
di Annarita Risola

Come acrobati, sempre in bilico tra l’esterno e l’interno dell’io, si giunge, a volte, in quel mondo parallelo fatto di percezioni alterate, di sovrapposizioni d’immagini e di ricordi forse mai vissuti. 

Ma qual è il confine oltre il quale il normale viaggio nell’immaginario si trasforma in patologica follia?

Ed è forse l’atavica paura della solitudine che porta l’uomo ad alterare la propria mente e a creare fantasiosi compagni di viaggio?

Danio Manfredini è l’attore e autore di Al presente, ma anche regista e “cantante”.

Il suo percorso di formazione inizia negli anni ‘70 presso il Laboratorio del Centro sociale Isola, dove studia con Cesar Brie, Iben Rasmussen, Dominique De Fazio e Tadashi Endo e poi continua nei Centri autogestiti di Milano e nelle strutture psichiatriche.

Il suo obiettivo, come egli ama sottolineare, è quello di evidenziare l’eterno conflitto tra l’incontro e la solitudine. 

Al presente fa il suo debutto 21 anni fa e permette a Danio Manfredini, l’anno dopo, di vincere il premio UBU come migliore attore. Siamo nel 1999.

La sala dei Cantieri Teateali Koreja, il 14 Dicembre 2019 è gremita.

La scena appare completamente bianca: le pareti, il pavimento, come pure i pochi arredi composti da una sedia posta sulla destra, un comodino da ospedale sulla sinistra e una panchina al centro.

Sulla parete frontale, uno dopo l’altro, sono proiettati quadri acquarellati (disegnati dallo stesso Manfredini ) che, in contrasto con il bianco della scena, sembrano rappresentare un’altra parte del mondo, quella colorata. Sono immagini di quotidianità, di passeggiate in bicicletta, di uomini sulle panchine usate come letti di notte nell’indifferenza dei passanti.

Anche Danio Manfredini è vestito elegantemente di bianco, così come l’uomo seduto che porta in scena, simile a lui nelle fattezze, una sorta di “pensatore” di Rodin, anch’egli scalzo e così inespressivo da far comprendere ben presto che si tratti di un manichino.

Due uomini agli opposti: l’uno statico, l’altro come ingoiato da un ciclone, che ruota intorno a sé, incorporando via via le storie, probabilmente vissute all’interno di un luogo psichiatrico.

Questa dualità racconta, forse, parte di un mondo che ci vuole semplici automi, privi di parola e dall’altra uomini fragili che assorbono e subiscono i pensieri altrui. Manfredini sulla scena è un uomo in continuo tormento. I suoi movimenti sono ripetuti, ritmici e nevrotici a rappresentare un mondo interiore fatto di mille emozioni che erutta come un vulcano. Un mondo, che per la sua intemperanza rievoca quello dei folli, non sempre rinchiusi in asettici ospedali; delle persone sole, che dialogano con se stesse e che si fanno compagnia ricordando i tempi passati e i frammenti di vita già vissuti.

Ma cosa rappresenta tutto quel bianco ?

Un luogo sterile o solo un luogo intimo violato, reso forzatamente pubblico e messo sotto un enorme riflettore? 

Come fermare quei ricordi, se non ripetendoli nella speranza di non dimenticarli?

L’unico modo per esprimere la sofferenza interiore è gridarla. E ciò che fa ordine in questo marasma di emozioni è l’armonia dell’inquieta, equivoca, ambigua staticità, di colui che pare guardare, riflettere e anche ascoltare le canzoni che, una dopo l’altra, fanno da colonna sonora.

Ma il suo canto è triste, come il suo volto, tinto di bianco che evidenzia i suoi occhi contornati di rosso.

Le mani dietro la schiena, le cui dita danzano come un pianista sulla tastiera, ma ciò che toccano sono vecchie note dolenti, la spazzatura che brucia vicino la casa dove abita col nonno e la mamma, mentre il padre prepara il sapone per il bucato. E tra un grido e un gemito, pone una domanda: “hai mai desiderato un’altra vita? […] Io l’ho desiderata”, risponde. Poi inizia vistosamente a tremare e a girare la sedia e vorrebbe che gli spettatori lo accogliessero con odio, in attesa della sua esecuzione. Evidente la sua allusione al lavoro teatrale dello scrittore tedesco Georg Büchner intitolata  “Woyzeck”, dal nome del protagonista, il barbiere omicida, impiccato nella piazza del mercato di Lipsia nell’Agosto del 1824. Egli la utilizza – come lo stesso autore dirà in un’intervista rilasciata a Gianni Manzella nel’98 – con la funzione di rendere il senso di ribellione.

La luce irrompe sulla scena, ed egli dice che vorrebbe riuscire a prendere il cuore per accarezzarlo, poi si copre con il lenzuolo, mentre si ode ”ti amo tanto, ti amo tanto”. Ora il protagonista occupa il centro della scena. C’è un gioco di  ombre sullo sfondo; come trino appare alle pareti e dopo aver platealmente indossato gli occhiali neri, dice che Dio non esiste, poi li ripone in tasca e augura “Buon Natale”. E continua: “Non si è mai completamente infelici”. Poi, seduto,  simula l’assenza di una gamba. Sulla canzone “Sally” di Vasco si accende una sigaretta e tossisce, la sua voce è commovente e le parole del testo “Perché la vita è un brivido che vola via…” sono un’ altalena sulla quale lasciarsi cullare. Poi è una donna che dal cassetto prende un librino, si fa il segno della croce e chiede di essere perdonata. Sono tutti frammenti di vite vissute, voci fuori campo. “  Ma le parole sono destinate a perdersi … e si può andare all’inferno anche senza scarpe “. Ma perché è senza scarpe? Forse per far comprendere che ora lui sia qui, nel presente, a mostrarsi nella sua fragilità. La luce inizia  a riempire gli spazi occupati prima da sentimenti nostalgici e negativi . Un’ultima immagine proiettata e un romantico sguardo all’infinito. Poi, lentamente, l’attore ruota capo. Il suo sguardo è celato dai grandi occhiali neri, ma altrettanto grande è il sorriso che offre, mentre con maestria attoriale s’inchina, per poi svanire nella luce.

Corso di Laurea DAMS // Progetto Palchetti Laterali Università del Salento

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