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immagine di copertina Tutto nasce da un’ immagine <br>Intervista a Marco Martinelli

Tutto nasce da un’ immagine
Intervista a Marco Martinelli

Interviste
di Annarita Risola

Marco Martinelli, regista e drammaturgo tra i più importanti nel panorama del teatro italiano, autore di testi teatrali e di opere cinematografiche fonda, nel 1983, il Teatro delle Albe insieme a Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni. Nel 1991 fonda la non-scuola del Teatro delle Albe e, dal 1991 al 2011, è direttore artistico di Ravenna Teatro.

È vincitore di sette Premi Ubu per la drammaturgia, del Premio Hystrio per la regia e di altri premi internazionali, fra cui il Mess di Sarajevo, il premio alla carriera del Festival de Carthage a Tunisi e il premio come “miglior libro sul teatro” per Aristophanes dans le banlieus, assegnato dall’Associazione Nazionale dei Critici in Francia.

D: Perché il “Teatro delle Albe” e perché questo nome?

R:Volevamo un nome che significasse “rinascita” in un fine secolo segnato da tragedie planetarie, come due guerre mondiali, lo sterminio del popolo ebraico, l’uso della bomba atomica, e un senso diffuso e maligno, nella produzione culturale, di disincanto, di assenza di prospettive. In una parola, di morte. E quindi ancor più mi sembra pieno di luce continuare a chiamarci Albe oggi, quando spettri come quelli del secolo scorso si ripresentano puntuali.

D:Cosa o chi ha davvero inciso sulla sua crescita personale e lavorativa?

R: Prima di tutto l’essermi innamorato a vent’anni di Ermanna, e aver condiviso tutto con lei: arte, vita, fatiche, allegrezza. Siamo stati maestri l’uno all’altra, abbiamo imparato dai nostri errori. 

D: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole…” lei percepisce una “volontà altra” che la guida nel suo percorso?

R: Da sempre mi misuro con l’invisibile. Con un Senso, una Luce che sorregga il nostro vagare su questa terra. Cresciuto in una famiglia cattolica, negli anni ho perso e ritrovato la fede, che non è un gioiello, un oggetto materiale che si può perdere e ritrovare, ma il terreno sul quale ho combattuto, e combatto, la “buona battaglia”, sul quale mi gioco, ci giochiamo, le ragioni della speranza. Lo dice come sempre genialmente Dante nel Paradiso: “fede è sostanza di cose sperate, e argomento delle non parventi.”

D: Come riesce a tenere accesa quella luce che Nietzsche chiama giovinezza”?

R: Lo avevano già detto millenni prima i Vangeli: se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno. Occorre tornare sempre all’origine, alimentarne la fiamma. E’ un lavoro quotidiano e paziente, che ci rinnova lo sguardo, ce lo pulisce dalle incrostazioni del tempo e dell’invecchiare.

D: Si è mai pentito per aver seguito (come lei dice) “logiche eretiche e non-istituzionali”?

R: Mai. L’eredità non si baratta con un piatto di lenticchie. Non ne vale la pena.

D: Come costruisce il suo rapporto con lo spettatore?

R: Penso prima di tutto a me stesso come spettatore. A me che vorrei ogni volta divertirmi e gridare come allo stadio e contemplare in silenzio come in un tempio. 

D: In merito allo spettacolo “Madre” di cui lei firma il testo e la regia, presentato ai Cantieri teatrali Koreja lo scorso 19 Marzo 22. Il vuoto è assenza ma anche potenzialità, l’oscurità di un crepaccio, la profondità di un lago da cui emergono segni di vita inattesa. Quanta speranza e quante incognite presenta questo lavoro?

R: Il nostro mondo è sempre stato pieno di violenza, l’umanità è sempre stata il “legno storto” cui accennava il filosofo Immanuel Kant. E in questa nostra epoca alle guerre e agli stermini si è aggiunta la possibilità di una catastrofe ecologica, della fine di tutte le fini. Madre si misura con questo orizzonte di distruzione: non lo fa col taglio del saggio o del discorso politico, al contrario, lo fa con la delicatezza di una favola antica, una madre contadina che cade dentro un pozzo, un figlio ossessionato dalla tecnologia che vuol tirarla fuori, o forse non vuole, o forse è proprio lui che ce l’ha buttata dentro. E’ un apologo in cui lo spettatore può entrare da diverse porte, e attraversarlo in maniere diverse. Dal mio punto di vista, che vale per quel che vale, visto che una volta scritta una storia appartiene solo a chi l’ascolta e la percorre con la propria vita, Madre è una macchia di azzurro nel nero.

D: Sempre in “Madre” tanti gli elementi che interessano la fitta trama di questa storia dall’apparente semplicità: la biscia d’acqua che evoca sessualità e fertilità, il buio, la paura dell’ignoto e l’incapacità (in questo caso del figlio) di ascoltare, il dubbio che s’insinua, la natura, la tecnologia e poi i suoni e i corpi, espressione di differenti arti che si uniscono in un solo corpo, trino e uno, che incanta ed emoziona. Come è nato e come si è sviluppato il suo processo creativo?

R: Tutto nasce da un’ immagine: un pozzo, una donna che ci è caduta dentro. Poi ci si mette a scrivere, ed è impossibile spiegare come il tutto prenda “quella” forma. Succede. Dietro la penna che scrive, c’è una vita intera, quella dello “scrivano”, per citare Testori, che tanto ha sofferto, esultato, che tanti libri e quadri e film e spettacoli ha divorato e digerito, che tanti perché si è domandato e continua a domandarsi.

D:Il teatro del’900 si distingue per l’esigenza di una costante ricerca di originalità. Lei ha definito il suo “Politttttttico” perché?

R: Io e Ermanna non amavamo il teatro politico autoritario, arrogante, il “so-tutto-io” che dominava alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. E al tempo stesso volevamo un teatro che ancora avesse a cuore la polis, che fosse politico nel senso più alto e nobile del termine. Da lì l’invenzione bislacca e patafisica del politttttttico con sette t.

D: Nel suo libro “Nel nome di Dante” cita San Tommaso D’Aquino, il quale parte dal dato reale, quello evidente che ha sotto i propri occhi. Lei da cosa “parte” per scrivere una storia?

R: E’ la storia stessa che mi invade, e all’inizio si manifesta in forme diverse: può essere un’immagine tra sogno e veglia, come nel caso dell’incipit di Madre citato in precedenza, oppure può presentarsi attraverso una vicenda di cronaca, come quella del vigile urbano Donato Ungaro che nel cuore dell’Emilia, a Brescello, ha avuto il coraggio di mettersi contro la ‘ndrangheta. Ogni volta lo spunto è diverso, ma un aspetto resta sempre uguale, le storie mi si parano davanti con piglio deciso e mi dicono: raccontami.

D: Alla luce dei nuovi e drammatici episodi di cronaca. Lei pensa che il Teatro possa essere ancora utile per smuovere le coscienze e sviluppare una nuova sensibilità/umanità?

R: Sempre. Anche se sembra una battaglia persa. Ma non lo è. 

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