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Non sparate più

Visioni
di Gigi Mangia

Il meridione d’Italia è stato divorato dal fuoco fra luglio e agosto del 2021. Sono andati in fiamme migliaia di ettari, di boschi, pinete e macchia mediterranea. Il paesaggio ha subito gravissime perdite e ci vorranno anni per recuperare. Il territorio è stato ferito dalla mafia, dalla criminalità e dalla speculazione, se solo il 2% degli incendi è avvenuto per cause naturali. È mancata la prevenzione ed è stata carente la lotta nello spegnimento dei grandi incendi. Perdendo 60 milioni di ulivi a causa della Xylella fastidiosa finiti in tronchi di carbone, il Salento ha perso la sua identità e la sua bellezza. Da parco a cielo aperto si è trasformato nel cimitero dei giganti vegetali ridotti in fantasmi bruni e ha perso il verbo della narrazione della terra benedetta dal mare. Anche il mare subisce la violenza della civiltà incapace di rispettare la natura. La grave crisi del clima, il conseguente aumento della temperatura hanno causato la perdita del 30% della Posidonia del fondo marino e il mare ha perso la bellezza dei colori delle sue acque. È diventato acido, malato. La terra, senza gli alberi, è indifesa dal sole, che la brucia e non perdona. La nostra è una condizione estrema di pericolo per l’uomo e per tutta la natura, compresi gli animali. Mi chiedo se può avere ancora un senso la caccia o se invece sarebbe necessaria la sua sospensione, prevista anche dalla legge n. 152 quando ci sono condizioni gravi di crisi ambientali come quella dei nostri giorni. Se i cacciatori amano e rispettano la natura, dovrebbero rinunciare a cacciare i pochi uccelli che ancora sono presenti nelle nostre campagne.

Oggi sparare, colpire gli uccelli, vuol dire uccidere il futuro della terra, che invece ci chiede aiuto, responsabilità e rifiuta la violenza. Rinunciate al fucile e, invece di sparare, leggete i poeti per imparare a vivere in armonia con la natura.

Come suggerisce Mariangela Gualtieri nella poesia 9 marzo del 2020, avremmo dovuto fermarci prima, ma non l’abbiamo fatto. Oggi le condizioni estreme, le temperature a 49° mai registrate prima nel Mediterraneo, ci dicono che dobbiamo avere il coraggio di farlo.

LA POESIA: https://www.doppiozero.com/materiali/nove-marzo-duemilaventi?fbclid=IwAR2Df2jnln_WFj_9kpVX-2ZEFZfAgYtol–L13XhdrBmB5wRzVWSWm4dhRg

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immagine di copertina Da Freetime all’arte visuale <br>Intervista a Gian Maria Cervo

Da Freetime all’arte visuale
Intervista a Gian Maria Cervo

Interviste
di Annarita Risola

Quanto della cultura partenopea a lei cara attraversa i suoi personaggi?

Direi molta, moltissima e non solo nei personaggi, anche e soprattutto negli intrecci. C’è sicuramente la dimensione barocca della cultura napoletana, una dimensione che sta sempre a un centimetro dall’anarchia, anzi, che spesso la tocca proprio. Mi sento un piccolo, piccolissimo, microscopico Gesualdo da Venosa, un piccolo Principe di Sansevero, ma forse sono solo uno dei tanti prodotti della loro
alchimia.

Freetime, scritto in collaborazione con i fratelli Presnyakov, si conclude con: “Vi vogliamo bene, nessuno è responsabile”. Alla luce di quanto sta accadendo oggi in Afghanistan, si sentirebbe ancora convinto di far concludere il suo spettacolo con questa frase?

​La nostra è una battuta provocatoria. Quindi sì, continuerei a provocare il pubblico sulla sua responsabilità. Credo che siamo tutti responsabili, io per primo. Voglio raccontarle questa cosa sull’Afghanistan. Venti anni fa lavoravo alla Deutsches Schauspielhaus di Amburgo come autore in residenza e il collega Roland Schimmelpfennig mi parlò dell’idea di provare a organizzare un Festival di drammaturgia contemporanea a Kabul. Io lo guardai come se stesse scherzando e feci cadere la cosa. Oggi avrei voglia di andare in quella città afghana, che so essere stata vivace e piena di fermenti culturali, a salvare una donna, un ragazzo gay, una persona povera e discriminata. E allo stesso tempo mi dico che ho paura, che non avrei gli strumenti per agire e mi dico anche che la paura è una scusa. Il problema è che siamo animali routinari e questa cosa è il maggiore ostacolo di fronte a una presa di responsabilità. Come drammaturgo mi sento investito del compito di smascherare le routine, ma mi chiedo se questo sia abbastanza.

Freetime, ha una doppia lettura, colta e popolare. Perché usa questo doppio registro? A chi si ispira?

Sono un lettore, uno spettatore e un visitatore onnivoro. Dai maestri dell’arte rinascimentale a Quentin Tarantino, da Virginia Woolf al cinema asiatico, credo di avere debiti di riconoscenza culturale verso molte persone e movimenti. Mi piace coinvolgere il pubblico attraverso l’inserimento di una serie di interessi, anche confliggenti, nei personaggi e nelle vicende delle mie opere. A volte inserisco interessi anche molto lontani dai miei. E mi piace entrare nei mondi dei miei testi mettendomi allo stesso livello dei miei personaggi, dialogando con loro, scoprendo tutto il trash che ho dentro ma senza nascondere la mia ricerca culturale e intellettuale. Altrimenti farei del paternalismo. Spero che questo spieghi questo doppio registro, come lo ha chiamato lei.

Come un quadro in movimento, Freetime, non è solo ricerca della parola ma del corpo. Un corpo che si esprime nelle sue intime esigenze, esasperandole. Perché questa necessità di eccessi?

Perché abbiamo bisogno di guarire i nostri corpi per guarire le nostre città, i nostri paesi,il nostro mondo. L’eccesso può essere la medicina o il segno del disagio. Non sta a me giudicare. Ma è ai limiti, ai limiti della pressione, che si trova un po’ di verità.

Cos’è per lei amorale?

Abbandonare le persone alle loro convinzioni

La storia, l’arte, la scienza, la politica, cosa l’appassiona di più?

L’arte, soprattutto quella visiva, perché è anche politica e scienza. E credo che a volte cambi la storia. Imparo tanto dagli artisti visivi, del passato e del presente, almeno quanto dai colleghi drammaturghi e dai grandi autori.

Ancora in Freetime si dice che nel 2045 l’intelligenza artificiale si farà padrona della vita e bisognerà pagare per il tempo libero… Non le sembra sia già così?

Mi sembra che quello a cui assistiamo oggi rischi di essere solo l’inizio

Crede nell’amore? E nell’amicizia?

Sì, certo. Il problema è che è sempre più difficile esprimerli. Viviamo frazionati, a pezzi. Solo per fare un esempio, a volte proporre a una persona un rapporto a pagamento è più facile che non dirgli o dirle quanto potresti considerarla amica o compagna. Sento anche un grande amore per i miei antenati, per alcuni morti e per alcune figure del passato. Poi mi rendo conto che gestire rapporti con fantasmi sia più facile che non con chi è fisicamente presente.

Il linguaggio che utilizza appare criptato… è così o è solo un gioco ben riuscito?

Mi sento profondamente napoletano ed europeo. E come in qualche modo le dicevo prima,sono nato in una città che ha delle piazze che presentano una concentrazione paurosa di scibile umano (pensi a Piazza San Domenico Maggiore). Mi sento molto legato a queste concentrazioni di energia umana e culturale, secoli e secoli di lotte e di conquiste. Per i miei colleghi americani raccontare un heritage è più facile, si tratta di pochi secoli (naturalmente ci sono culture straordinarie precedenti, che però sono rimaste sommerse e sono difficilmente ricostruibili), possono ricorrere a narrazioni che, se non sono lineari, sono quantomeno dirette. Noi europei dobbiamo ricorrere a sintesi più complesse, abbiamo molto più materiale da affrontare, dobbiamo usare molto di più il segno, come facevano i maestri del nostro Rinascimento. La connessione a questo heritage per un autore è un dovere verso la necessità di ampliare i discorsi. Provare ad ampliare i discorsi è un modo per provare a non abbandonare le persone.

Gian Maria Cervo è drammaturgo, traduttore, direttore artistico e curatore italiano, autore, insieme ai fratelli Presnyakov, di Freetime. Freetime è stato presentato all’interno de IL TEATRO DEI LUOGHI FEST 2021 nell’Ortale dei Cantieri Teatrali Koreja a Lecce; regia di Pierpaolo Sepe.

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In cenere i luoghi dei poeti

Visioni
di Gigi Mangia

Finisce in cenere il paesaggio del mediterraneo e finiscono in cenere i luoghi dei poeti. A Pescara il fuoco divora la pineta di Gabriele D’Annunzio, nel Salento gli ulivi del poeta Girolamo Comi. La violenza del fuoco distrugge il paesaggio di Vincenzo Ciardo e la campagna diventa un teatro di fantasmi, di tronchi carbone. Va in fiamme “Zante” la famosa Zacinto del poeta Ugo Foscolo e le fiamme distruggono Olimpia, la città degli dèi e la città dei filosofi Atene.

Quasi tutti gli incendi hanno dietro il vento del dolo. A causa della mancata prevenzione e del non sufficiente impegno della politica, agiscono indisturbati i criminali e la mafia. Prevalgono gli interessi della speculazione, a cui si aggiunge il cambiamento climatico; le alte temperature ne certificano la gravità e, quindi, la necessità di un cambiamento radicale dl comportamento dell’uomo. Brucia il Mediterraneo, avanza la desertificazione della terra.

L’aumento della temperatura porterà a vivere condizioni di vita tropicali nelle città benedette dal Mar Mediterraneo. Non è solo un cambiamento del paesaggio urbano e umano, ma è più ancora una perdita dei valori culturali e sociali, in particolare per il teatro dei luoghi in cui la cultura del vivere fuori è fatta per sentire il piacere della natura.

Non servono più le lacrime, ora è il tempo di cambiare e siamo in ritardo. Dovevamo fermarci prima e non lo abbiamo fatto.

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immagine di copertina Un teatro che parta dall’uomo, ovunque sia

Un teatro che parta dall’uomo, ovunque sia

Salvatore Tramacere e Teatro Koreja

Interviste
di Teatro e Critica - Luca Lòtano

Dialogo con Salvatore Tramacere direttore e fondatore artistico di Teatro Koreja durante la programmazione di Teatro dei Luoghi Fest e del progetto europeo AIDA Incontro Salvatore Tramacere per la prima volta su Zoom, nell’ambito di uno dei webinar online del progetto MAPPA per parlare di comunità integrate e post colonialismo

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immagine di copertina Il teatro scava. Sempre.

Il teatro scava. Sempre.

intervista a Cesar Brie

Interviste
di Annarita Risola

César Brie, argentino alla nascita, ha vissuto in Bolivia, Danimarca, Italia… Ha un suo luogo del cuore o la sua casa è lì, dove la porta il Teatro?

Proprio così, vado dove mi porta il teatro, ma ho diversi luoghi del cuore. Argentina prima, perché lì si parla la mia lingua e perché la patria di un uomo è la sua infanzia, credo fosse Rilke a dirlo. Il luogo degli affetti, dei ricordi e delle forme specifiche del dire e del fare che creano il nostro primo humus culturale, anche se le letture, tantissime da bambino, mi facevano visitare il mondo intero. Ma anche l’Italia dove sono arrivato fuggendo dalla violenza della classe dirigente Argentina, che negli anni 70 ha sterminato chiunque agisse per proporre un paese diverso dall’umiliante destino che ci hanno imposto con la forza. E la Danimarca dove ho vissuto 10 anni a fianco alla mia straordinaria e indimenticabile maestra Iben Nagel Rasmussen. I
danesi mi hanno accolto, dato un passaporto, ospitato. Ho imparato a conoscere un popolo pieno di senso dello humour, rispettoso e affabile, l’esatto contrario del luogo comune che vede gli scandinavi freddi e distanti. Infine, la Bolivia dove ho costruito un teatro e aiutato a vivere di teatro, inteso come vocazione e dedizione, tante persone in un paese dove nessuno considerava il teatro una professione. In Bolivia ho imparato tanto, a rispettare i diversi, a non temere di non essere capito, a lavorare in povertà gioiosa e a capire che il tempo è la principale ricchezza di cui abbiamo bisogno per creare opere d’arte. L’altro luogo del cuore sono gli incontri con persone e artisti che mi hanno dato tanto. Tra questi Iben Nagel Rasmussen, Antonio Attisani,Gabriel Martinez e gli attori che con la loro dedizione e disponibilità mi hanno offerto corpo voce e sensibilità per creare opere insieme. E tutti gli amici la cui lista sarebbe immensa da compilare, che mi hanno aiutato, sostenuto, accolto e senza i quali, non sarei altro che un folle solitario.

Lei parla di un “teatro concreto, semplice e non intellettuale”, perché?

Ho lavorato per persone e pubblici molto diversi. Ho capito che il teatro ha bisogno delle differenze e che quello che risuona in un luogo o in una classe, risuona in modo diverso in altri ambienti. Così ho imparato a cercare nel teatro i paradigmi del nostro presente che, tutti o quasi tutti, possono riconoscere. Spesso confondiamo cultura con nozioni o istruzione, i pregiudizi e le mode ci impediscono di cogliere lo spirito del tempo, riteniamo il centro solo quei luoghi in cui girano maggiori quattrini e la visibilità è maggiore e non capiamo che dalle periferie lo sguardo vede meglio, perché non è sepolto in se stesso.

Qual è il suo pubblico ideale?

Il pubblico ideale è eterogeneo. Mi piace lavorare per pubblici mescolati, dove lo stupore del ragazzo si impregna della nostalgia dell’anziano, dove il pregiudizio di colui che arriva a giudicare si sgretola contro la reazione di chi viene a divertirsi. Ho avuto tanti pubblici e ho vissuto certe volte la sensazione che pubblico e artisti erano uniti da qualcosa di più grande…nell’emozione, nel sorriso, nella commozione, in quello spazio dove mente e cuore si incontrano e si arrendono a vicenda.

Come ha vissuto il periodo del lockdown?

Sono rimasto chiuso in un teatro. Provavo in sale vuote, scrivevo, riflettevo, Ho fatto i conti con molti aspetti della mia vita, ho scritto lettere, ho perdonato e chiesto scusa, mi sono interessato della sorte di persone che avevo sepolto nell’indifferenza, ho ripulito rancori, chiuso contenziosi e guardato con altri occhi le vicende che mi riguardavano. Ho scritto insieme a un caro amico, Antonio Attisani, un lavoro teatrale che è diventato una introspezione giocosa, una commedia, degli elementi che compongono la nostra vita artistica. Quindi, abbiamo riflettuto sul nostro mestiere e la nostra vita. Il risultato è “Boccascena” un’opera teatrale che debutterà a fine gennaio a Ravenna. Dopo due mesi di scrittura isolati, abbiamo trasgredito le proibizioni e abbiamo cominciato a provare clandestinamente. Tutto questo per me è stato meraviglioso. Poi la pandemia continuava, le risorse finivano, le elemosine statali a malapena mi aiutavano a sopravvivere. Quindi a questo primo periodo di riflessione, ascolto, scrittura e lavoro quasi in solitudine, è seguito un periodo sconfortante di stanchezza. Io e Attisani poi, siamo andati a vivere insieme fuggendo da Milano e abbiamo trovato tra le colline della Alta Val Tidone un paradiso. E proprio qui, adesso, sto costruendo un’isola del teatro. Un luogo dove provare, allenare, fare seminari e incontri destinato a me e a quelli che ne avranno bisogno. Un luogo dove praticare, provare, indagare, studiare, allenare il teatro in modo ritirato e disponendo del tempo, sempre il tempo che serve ad approfondire, cercare, sperimentare e finalmente creare nuove composizioni.

Nei suoi spettacoli ogni personaggio si esprime in profondità. Perché questa necessità di scavare nei sentimenti?

Il teatro scava sempre. Con luce, con ironia, con dedizione, con il corpo, la voce e gli oggetti, gli attori indagano e ripropongono agli spettatori specchi incomodi, grotteschi dove tutti, attori e spettatori, possono contemplare chi sono, dove vanno.

Secondo lei in Italia il Teatro può definirsi “indipendente”?

Purtroppo, no. Lo zampino dello Stato che finanzia chi vuole e le
regole con le quali si realizza il teatro in Italia ostacolano la imprescindibile indipendenza di cui gli artisti avrebbero bisogno per creare. La politica ha messo lo zampino sugli artisti e sulle compagnie e destina soldi a poche esperienze quando dovrebbe sostenere molto di più gli artisti che emergono, quelli affermati che ancora oggi sono costretti a mendicare a qualche assessore il loro diritto di creare. Urge una vera legge sul teatro, urge cacciare via dalle loro comode poltrone romane, personaggi nefasti che restano lì malgrado cambino i governi e determinano chi vive e chi annaspa. Bisognerebbe tornare a un sistema grazie al quale gli artisti possano mostrare il loro lavoro sempre e sia il pubblico a decidere con la sua presenza, l’esistenza reale dell’evento teatrale nelle sale. Vedremo gruppi senza quattrini riempire le sale e carrozzoni pieni di risorse presentarsi di fronte a platee vuote. Il pubblico sa riconoscere qualità e poesia, mentre gli assessori, di norma, cercano di propinare al pubblico brodaglia televisiva.

Posso chiederle cosa la spaventa di più e cosa la rende felice?

Mi spaventa rimanere intrappolato dalla vecchiaia e non accorgermene. Vorrei avere la lucidità di poter scegliere, quando la carcassa non funzioni più, di togliere il disturbo. Non mi spaventa la morte, ma la decadenza fisica e il rincoglionimento. Mi auguro una morte nel sonno come è capitata a mia madre. Ho lavorato abbastanza per meritarmela. Poi mi spaventa constatare che la coscienza dei diritti degli uomini non ci abbia fatto approdare a una società più giusta. E che la democrazia, in cui credo strenuamente, sia ormai ostaggio dei pescecani della finanza e dei demagoghi della politica. Mi rende felice lavorare ancora, vedere i giovani sognare e lottare per le cose in cui credono e passeggiare nella natura.

C’è ancora qualcosa che vorrebbe realizzare come uomo e come artista?

Sì. Vorrei scrivere un romanzo, un libro di memorie, montare due o
tre lavori teatrali, fare un film, raccogliere le mie poesie e pubblicarle. Insomma, vorrei poter lavorare ancora.

Si dice che ci siano incontri che ti cambiano la vita. Ce n’è stato uno che ha modificato il suo modo di vedere le cose?

Gli incontri della mia vita? Una donna che mi ha dimenticato molti
anni fa, nata il mio stesso giorno, anno e ora, che nella mia memoria è il paradigma della bellezza interiore e per la quale non sono nulla. La mia maestra di teatro Iben Nagel Rasmussen. Un uomo che mi ha cambiato la vita si chiamava Gabriel Martinez, antropologo cileno, un saggio luminoso e solare, un amico fraterno e un padre spirituale. E poi, l’incontro con Antonio Attisani, che non mi ha insegnato a pensare perché come dice lui, per pensare bisogna avercelo il cervello.

Si può esprimere la propria politica anche a Teatro, attraverso l’uso corretto della parola. Lei lo fa?

Il teatro non è un luogo di trasmissione di idee. Il teatro è un luogo di esperienza. Io indago con il teatro, attraverso i corpi, le immagini e le parole.

L’intervista è stata realizzata in occasione de: “La riparazione” spettacolo con la regia di Cesar Brie visto a Lecce / Cantieri Teatrali Koreja / Il Teatro del Luoghi Fest / 17 e 18 Luglio 2021 nell’ambito di AIDA PROJECT (Adriatic Identity Through Development of Arts) Progetto co-finanziato da European Union under the Instrument for Pre-Accession Assistance (IPA II) Interreg IPA – CBC Italy – Albania – Montenegro

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immagine di copertina Diventa odio l’amore, quando a nutrirlo è il suo peccato.

Diventa odio l’amore, quando a nutrirlo è il suo peccato.

Critica
di Annarita Risola

In questa calda sera d’estate del 9 Luglio 2021, l’ortale del Teatro Koreja, ospita “Casalabate1492”. In scena Carlo Durante e Fernando Blasi, noto ai più come Nandu Popu, il cantante dei Sud Sound System; la regia è di Salvatore Tramacere. Gli attori camminano lentamente sul proscenio, l’uno alla destra, l’altro alla sinistra, accompagnati dal canto liturgico dell’Ave Maria e dal suono di un organo, fino a giungere alla ribalta.  E mentre le preghiere in latino fanno da bordone, iniziano i loro racconti di bambini. Quello seduto sul cavalluccio rosso legge storie tratte da “La crociata dei bambini” di Marcel Schwob, parla di “fanciulli selvatici e ignoranti”, mentre l’altro ha in mano una canna da pesca e i fanciulli di cui parla, sono figli di un abate e una badessa. La loro era una storia d’amore è come tante altre, ma a differenza delle altre, è proibita. La casa dell’abate, Casalabate appunto, è il luogo dei loro incontri segreti, ma anche di paludi e di malaria.

Negli anni’70 si bonificò la zona, dando il via a quello scriteriato e spasmodico abusivismo edilizio che avrebbe invaso la costa. Popu indossa gli occhiali da bravo narratore e di tanto in tanto col dito segue le parole, come se la chironomia potesse sottolinearle. “Nutrito dai pensieri…” In quel viaggio a ritroso nel tempo, riaffiorano i ricordi e rivede quei quattro “menati” del paese, quelle persone scartate, emarginate dalla società, che improvvisamente diventano a tutti gli effetti malavitosi, “malandrini”. Ed ecco ritornare in quei luoghi, in quel bar dove la bella del paese, detta Naomi Campbell, era sempre scortata dai suoi body guard, alla rotonda vicino il mare, dove suonavano la canzone di Fred Bongusto. Bella Casalabate, bella quasi come Venezia, pensava Nandu, bella anche quando ci si riuniva per preparare le conserve di salsa, perché era un modo per stare insieme e fare festa. Le case erano così vicine al mare che diventavano verdi per l’umidità tanto che alla fine, molti villeggianti, decidevano di tinteggiarle dello stesso colore verde, per risparmiare un pò di pittura e di fatica, come il suo amico Angelo detto il “Bue”, che ogni anno incontrava puntualmente, con secchio e pennello. “Ma noi eravamo fortunati”, dice Nandu, “perché potevamo giocare, loro no, dovevano lavorare e ci invidiavano”. Intanto il nodo della corda che tiene stretta la plastica al centro del proscenio, viene piano piano sciolto, rivelando un grosso ippopotamo azzurro (notevole il lavoro eseguito in cartapesta dal maestro Deni Bianco). Ecco… da qui il soprannome di Nandu…Popu, ippopotamo, appunto. Continuano le letture che esaltano la purezza dei bambini. Ma di quella bellezza la badessa e l’abate ne sfruttavano ogni risorsa. Quei figli, nati nel peccato, dovevano pur mangiare. Per farlo dovevano lavorare e come tradizione biblica vuole, coltivavano la vigna e ne vendevano i suoi frutti, in cambio di olio, agli abitanti della non troppo distante Otranto. Nessuno credeva che quelle 18 creature, si dice tutti maschi, fossero i loro figli. Preferivano pensarli figli delle streghe, le cosiddette “striare”. Ma un giorno scapparono e andarono nella vicina Trepuzzi, accolti dai pastori e non fecero mai più ritorno, perché l’odio si nutre del peccato. Gira la giostra e Patty Pravo canta “ragazzo triste”. Sognano ancora i bambini di diventare grandi, Popu avrebbe voluto fare il ciclista-pescatore e osservare il mondo da quello scoglio, ma in compagnia, perché non bisognerebbe mai stare da soli. Poi la giostra si ferma, “stanno arrivando i contrabbandieri” e inizia a raccogliere la lenza. Ecco giunto uno Yacht, pieno di stecche di Philiph Morris, si attende la notte per scaricarle e tutti aiutano a farlo, soprattutto i bambini che con le loro manine riescono ad infilarle dappertutto nella macchina. In cambio, anche loro riceveranno qualche stecca, da regalare agli adulti come un trofeo. Una stecca anche a Sartana, il cantante che Popu da bambino guardava con ammirazione mentre cantava “Marina”. Dormiva in macchina, quella notte, era ubriaco, la moglie lo aveva lasciato. Morì bruciato in quella macchina, divenuta ormai la sua casa. Con questo triste ricordo, si chiude lo spettacolo, una testimonianza di un’epoca non troppo lontana, di una mentalità del sopruso non ancora del tutto sradicata. Un bene continuare a parlarne, far emergere il brutto e trasformarlo in bello e, molto semplicemente, aiutare le nuove generazioni a non commettere gli stessi errori. Popu utilizza la favola e un linguaggio semplice e chiaro, ben consapevole che le parole, anche se non recitate come un attore consumato, riescono a fare breccia, si sedimentano e, seppur lentamente, trasformano le menti. Anche questo è il nobile scopo del teatro, educare attraverso il racconto.

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immagine di copertina A proposito di Casalabate

A proposito di Casalabate

Intervista a Nandu Popu

Interviste
di Annarita Risola

Incontriamo Nandu Popu, al secolo Fernando Blasi, ai Cantieri Teatrali Koreja, a Lecce, la sera del 10 Luglio 2021, dopo lo spettacolo “Casalabate 1492”, di cui è autore e nel quale si presenta anche in veste di attore. Il noto cantante dei Sud Sound System ha già al suo attivo un romanzo dal titolo “Salento Fuoco e Fumo”, edito da Laterza nel 2012.

Come nasce l’idea di questo spettacolo?

Lo spettacolo nasce durante la stesura di un libro, che ho iniziato a scrivere qualche anno fa e che è di prossima pubblicazione. Le idee nascono così, spontaneamente e questa mi è venuta in mente mentre ero a Casalabate, in sella alla mia bicicletta, che uso per rilassarmi e per riflettere. Tanti sono i ricordi che mi legano a quel paesino. Mi sono sempre chiesto come mai la piazzetta antistante il cosiddetto “Casermone” o come dico io “l’ex alcova”, casa d’incontro dell’abate e della
badessa, fosse sempre piena di gente. Casalabate… la casa dell’abate. Ma – il male chiama male – e dall’interno di quel luogo, dove si sono consumate passioni e violenze, il peccato e l’odio si sono propagati all’esterno. Così quel posto è diventato una calamita per i “malandrini”, un cattivo esempio emulato dai più piccoli. Un finto riscatto sociale, basato su una ricchezza priva di morale.

Perché ha scelto come titolo “Casalabate 1492”?

Casalabate è il nome del luogo di vacanza della mia infanzia, quello delle conserve di salsa e delle barche che arrivavano di notte con grandi quantitativi di sigarette, ovviamente di contrabbando, che prontamente, seppur bambini aiutavamo a scaricare, sotto gli occhi di tutti, anche di chi avrebbe dovuto impedirlo. Il numero 1492 ricorda invece la scoperta dell’America, perché quello che racconto era noto a tutti.

Nel racconto si parla di 18 bambini, perché questo numero?

I bambini di cui parlo, figli di questo amore proibito tra l’abate e la badessa, erano tanti, io dico 18. Non è stata una scelta pensata ma casuale. Ad ogni modo, andando a ricercare successivamente, il numero 18 pare abbia diversi significati attinenti alla storia. 18 ore durò la passione di Cristo. Nella smorfia rappresenta il sangue. Infine, da un punto di vista esoterico, il numero 18 simboleggia il tradimento e
l’ignoranza. Stranamente tutto quello che, molto probabilmente, subirono quei bambini, vittime di un iniziale tradimento, quello fatto a Dio, figli dell’ignoranza e destinati a soffrire. Tuttavia, le persone più anziane raccontano che questi bambini una notte riuscirono a scappare da quella maledetta casa e si rifugiarono a Trepuzzi, dove furono accolti da alcuni pastori.

Cosa rappresenta per lei il Teatro?

Lo considero un’avventura, un viaggio introspettivo, un momento intimo che mi consente di attraversare il dolore e far emergere quel male, visto e anche un po’ vissuto che, poiché bambino, non ho ben compreso. Il tempo e la passione per la sociologia e l’antropologia mi hanno aiutato a capire meglio e metabolizzare ciò che è accaduto. Il teatro mi permette di utilizzare più codici e comunicare attraverso il corpo con la danza, la voce con il canto, il gesto con la recitazione, la parola con la narrazione, consentendomi, molto umilmente e a mio modo, di spiegare a chi mi ascolta, ed in particolar modo ai ragazzi, che quel mondo di cui parlo, fatto per lo più di eroi negativi, non va assolutamente emulato, ma al contrario, preso in giro, ridicolizzato. Io credo che se a quei bambini non fosse stata negata un’infanzia spensierata, se avessero potuto giocare a pallone, essere felici, invece di dover lavorare e
subire continui maltrattamenti proprio da quelle persone che avrebbero dovuto solo proteggerli e amarli, vittime a loro volta di violenza e coercizione, forse non sarebbe o diventati quegli adulti, quei “malandrini” pieni di rancore e di rabbia.

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immagine di copertina Giù la mascher(in)a!

Giù la mascher(in)a!

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di Gigi Mangia

Per il teatro sta finendo il tempo di comunicare i sentimenti con gli occhi.

Potremo ricominciare a dirci ciao sorridendo.

È il tempo di costruire a piene mani il sociale con la cultura, attraverso la promozione e la partecipazione.

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immagine di copertina Corpi vuoti

Corpi vuoti

Visioni
di Gigi Mangia

Il 19 giugno è stata la giornata nazionale del rifugiato. Sono 82.500.000 di persone i corpi vuoti senza diritti. Persone in marcia che lottano per avere pane, per avere una casa, per avere lavoro, per avere istruzione. Sono persone nella storia, che non hanno attenzione, ma la storia non può dimenticare e per il teatro sono sempre una storia da raccontare.

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immagine di copertina C’è un giardino chiaro

C’è un giardino chiaro

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di Gigi Mangia

Per vincere la pandemia, il Teatro Koreja ha avuto coraggio e non è stato facile. Ci sono stati mesi di lavoro invisibili.  Senza il pubblico il teatro è vuoto, la creatività è congelata, le parole sono assenti e lo sguardo è sospeso. Un solo pensiero ha armato la fiducia di Koreja, quello di resistere e avere coraggio. Il coraggio, infatti, ha cambiato il teatro. L’ortale con i suoi alberi di limone, è uno spazio nuovo per fare teatro all’aperto, sotto il cielo a fasce blu, quando la luna è lontana, assente, nelle notti d’estate. Il teatro fuori è quello dell’aria, dei profumi e dei sapori. È il teatro in cui partecipano le ombre e le orecchie o il naso, fanno più degli occhi. Sentire ed ascoltare è bello, perché vuol dire partecipare, essere coinvolti dal teatro.

Il teatro dei luoghi non è quello degli stucchi e dei velluti rossi, è il teatro che vive della forza profonda del “genio” del paesaggio della terra.

“C’è un giardino chiaro, fra mura basse,

di erba secca e di luce, che cuoce adagio

la sua terra.È una luce che sa di mare.

Tu respiri quell’erba”.

Da Estate di Cesare Pavese

prossimi Appuntamenti

17 mag

Fabrizio Gifuni

Con il vostro irridente silenzio

23, 24 mag

FORTY!

Koreja in tournée

11 mag

LàQua

12 mag

LàQua

16 mag

LàQua