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Vivere il respiro

Visioni
di Gigi Mangia

Molto comincia dal vivere il respiro: la vita, la crescita, la salute, il diritto di respirare aria sana, ma anche la paura e la crisi, causata dal Covid 19 e dalla paura del dolore ai polmoni. L’aria si muove. Comincia l’autunno, per noi salentini, la stagione dei venti di scirocco e tramontana, di quelli freddi dei Balcani e della Siberia. È la stagione dei raffreddori e dell’influenza, che favorisce la diffusione del virus quindi il rischio di essere contagiati. Le persone, più ancora gli anziani, hanno paura, si chiudono in casa, vivono l’isolamento come difesa. È una risposta sbagliata. Il respiro è la luce dell’aria da vivere fuori, con gli altri, senza avere paura. L’aria è il bene più universale per tutti, senza distinzione sociale, da vivere nelle relazioni. Il teatro Koreja è aria sociale, accoglienza, casa comune dove partecipare con gli altri agli spettacoli, senza paura. Il Foyer è grande, comodo e ben arieggiato, dove le regole di sicurezza possono essere rispettate e garantite per la tutela della salute di tutti. Il teatro senza pubblico non è teatro, perde il respiro, gli manca la luce dell’aria sana. Strade maestre continua ancora, non si ferma. Dobbiamo tornare a frequentare e partecipare alle iniziative del teatro, vincendo la paura del virus e credendo alla forza della cultura come risposta al piacere di vivere il respiro con gli altri. I venti di autunno del Salento non ci devono fare paura e meno che mai ci devono tenere chiusi nelle nostre case. Tutti in teatro allora.

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immagine di copertina Aprire la scuola alla città

Aprire la scuola alla città

Visioni
di Gigi Mangia

L’educazione, la formazione della cittadinanza responsabile, non è un compito solo della scuola, ma di tutta la Polis. Nel 1977, con la chiusura delle scuole speciali, l’Italia faceva l’impegnativa scelta della scuola inclusiva di tutti. Quegli anni furono quelli delle grandi riforme, come la chiusura dei manicomi e la riforma sanitaria nazionale. Questa stagione oggi, sembra avere esaurito tutta la sua spinta sociale innovativa. Il Covid ha accelerato la crisi, limitando i diritti e portando indietro le grandi conquiste sociali, come la mobilità, alla base delle grandi trasformazioni del ‘900, il secolo della nascita dell’Europa dei diritti universali. La crisi ha colpito principalmente la scuola, indebolendo l’educazione, l’istruzione e la formazione di cui oggi abbiamo un grande bisogno. Ce lo chiede il futuro. Da sempre, la scuola, per le famiglie è stata una certezza, ora non lo è più, a partire dall’ orario dell’inizio delle attività. I servizi della mobilità sono in confusione. Le famiglie deluse e disperate. Alla scuola mancano quasi 200 mila insegnanti, di questi, almeno la metà sono supplenti e insegnanti di sostegno per di più viene meno la continuità didattica per i disabili nonostante sia stata riconosciuta da tante Sentenze. Questi docenti non sono specializzati, non sono preparati, non hanno esperienza e sono poco motivati ad insegnare a ragazzi che hanno gravi problemi, dove la motivazione è fondamentale per avere un rapporto socio-affettivo importante. Spesso i disabili sono pluriminorati, perciò il sostegno è più complesso e anche più difficile: serve avere molta esperienza. La scuola dell’inclusione sociale è in ritardo e il prezzo lo pagano i pluriminorati e i poveri delle periferie. La dispersione e l’impoverimento sociale sono due sconfitte che la scuola deve evitare. Nell’ anno scolastico passato, più di 1 milione di studenti è stato fuori dalla scuola compresi 285 mila disabili.
Per superare le diverse difficoltà si dovrebbe favorire un’alleanza fra docenti curriculari e insegnanti di sostegno, fra operatori sociali ed esperti pedagogisti. La scuola deve trovare la forza per aprirsi alla città. Le strade e le piazze dove di trovano le scuole devono essere pedonalizzate, da usare per fare lezioni quando il bel tempo lo consente. La città è una foresta di motivazioni di studio. Le mura, le piazze e le vie sono piene di significati: i nomi di poeti, di statue, di date delle grandi scoperte geografiche, sociali e scientifiche. La città poi è ricca di voci e di suoni dei mestieri che fanno parte della vita di ognuno di noi. Le mura, le facciate dei palazzi, le chiese testimoniano la storia e la grandezza della città. L’architettura rappresenta la trasformazione del paesaggio e il rapporto con la campagna. La scuola deve aprirsi, deve uscire fuori, incontrare la città, valorizzare i luoghi del sapere come i musei e le biblioteche, il cinema e il teatro. La cittadinanza etica e responsabile si impara a scuola ma si costruisce nella Polis. Il rinascimento dell’Italia, comincia a scuola, passa dall’ università e dai centri di ricerca. Il debito che stiamo facendo noi lo pagheranno, però, le nuove generazioni. Non dobbiamo sbagliare e come ci ha insegnato il Presidente della B.C.E. Mario Draghi, c’è un debito cattivo e un debito buono, per questo, questa volta, non possiamo sbagliare.

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immagine di copertina Rosa Balistreri

Rosa Balistreri

suono di voce e luogo dell’anima

Interviste
di Annarita Risola*

Angela De Gaetano, voce recitante e autrice del testo “Rosa,
Rose”.

Uno spettacolo dove la parola acquista il doppio significato che Aristotele gli attribuì nel De interpretatione : “suono di voce significativo per convenzione e simbolo delle affezioni che hanno luogo nell’anima”.  Come nascono e che significato da alle parole utilizzate nel suo testo?

Dopo aver accolto l’invito di Ninfa Giannuzzi e
Valerio Daniele a prendere parte a questo progetto, ho attivato una fase di
studio. Ho cercato di “assorbire” la voce di Rosa Balistreri da semplice
ascoltatrice e, dopo aver attraversato da appassionata lettrice tutte le
vicende della sua vita, ho sentito che l’unico modo per poter raccontare la
storia di questa donna fosse procedere a ritroso, raccontando in terza persona.
Dalla sua morte alla sua nascita
. In direzione contraria. Mi sembrava una modalità
perfetta per una persona “controcorrente” come Rosa.

Perché la scelta di parlare in terza persona?

Perché, a mio avviso, in questo caso è l’unico modo
possibile. In primo luogo, per una questione di rispetto verso la vita di Rosa,
nella sua autenticità. A mio avviso, la prima persona in questo racconto
avrebbe creato una stonatura. C’è una scelta d’autrice precisa, che danza tra
le parole, scegliendo un percorso non lineare, che procede per frammenti, con
l’obiettivo di arrivare alla sua nascita, che per me rappresenta, in questo
caso, un forte desiderio di ri-nascita. Raccontando in terza persona, ho
cercato di creare la giusta distanza, per sfiorare con una carezza la sua vita
già troppe volte calpestata. Ho cercato di abbracciare i sentimenti nel modo
più schietto possibile, da donna a donna, senza cercare di essere
(teatralmente) altro da me. Per avvicinarmi ad un racconto che fosse il più autentico
possibile, senza l’intermediazione del teatro. Il mio intento era quello di
creare un racconto che precipitasse in un atto d’amore puro.

Secondo lei è esistita o esiste un’artista paragonabile a Rosa
Balistreri?

Ogni artista è unico e il paragone con altri non è
mai cosa che rende giustizia all’arte. Posso però dire che Rosa rappresenta
tutte le donne, artiste e no, che lottano quotidianamente contro le
ingiustizie, con una forza inaudita e un istinto di sopravvivenza
sorprendentemente primordiale.

Lo spettacolo è pregno di drammaticità. La stessa Rosa definiva
la sua nascita: “ il più grande dramma della sua vita”. Se fosse vissuta in
quest’epoca, avrebbe avuto lo stesso destino?

Sicuramente il contesto storico e le condizioni
sociali erano completamente diverse: povertà estrema, sia materiale che
educativa, violenza domestica ripetuta e una guerra mondiale non sono fattori
trascurabili. Nonostante questi drammi, Rosa è riuscita a riscattarsi
attraverso la sua indole ribelle, il suo cuore e la sua voce. Fuggire dalla
Sicilia è stato un passaggio fondamentale della sua vita. Se non fosse andata a
Firenze, forse, non avrebbe avuto tutta una serie di opportunità che poi
l’hanno condotta a diventare una cantautrice. Forse, se non fosse andata a Firenze,
non l’avremmo mai conosciuta. Questo fa riflettere su quanto, a volte, sia
necessario allontanarsi da certi contesti, per poter far esplodere il proprio
talento e, in alcuni casi (come questo), salvarsi.

Come nasce il titolo dello spettacolo?

Il titolo dello spettacolo vuole “includere” le
tantissime donne che, ancora oggi, nelle diverse parti del mondo, subiscono
forti discriminazioni e violenze, dalle più “piccole” fino ad arrivare alle
tragiche azioni che conducono alla morte. C’è ancora tanta violenza ovunque,
una violenza che va disinnescata. E, in tal senso, l’arte tutta in generale e,
nel nostro caso il teatro, la narrazione, la musica e il canto, sono strumenti
molto potenti.

Rosa  Balistreri diceva:” si può fare politica
cantando”. Le chiedo: si può fare politica anche con un “apparentemente
semplice” spettacolo?

Ogni gesto, anche il più “banale” è un atto
politico, nella misura in cui ha delle ripercussioni sulla società. Se si
ponesse l’attenzione su questo, se ciascuno di noi acquisisse vera
consapevolezza delle proprie azioni, anche piccole e quotidiane, penso che il
mondo ne gioverebbe. Ci vuole maggior cura delle relazioni con gli uomini, con
le cose, con il mondo. Più amore e rispetto ci vorrebbero, per valorizzare gli
uomini in ogni angolo del mondo.

Cosa può fare il teatro per migliorare la società?

Al di là della questione strettamente artistica, la
pratica teatrale, se ben condotta, attiva un processo di miglioramento del
singolo attraverso la relazione con l’altro. Attraverso il teatro abbiamo la
preziosa possibilità di metterci in discussione e di rivolgerci all’altro con
uno sguardo nuovo. Abbiamo l’occasione di creare le condizioni per veder
nascere una fertile comunità di uomini, che, per quanto mobile e provvisoria,
rende altresì viva e concreta la possibilità di riflettere e di rivoltarsi
costantemente, agendo affinché la diversità e la cooperazione siano sempre
ricchezza, nell’attivazione di un inedito processo di crescita condivisa e di
trasformazione continua, che ampliano costantemente i nostri orizzonti.

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Annarita Risola è studentessa Corso di Laurea DAMS e Socia fondatrice Palchetti Laterali Università del Salento

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immagine di copertina Ricordare il poeta Dante

Ricordare il poeta Dante

Visioni
di Gigi Mangia

Per un teatro come koreja, che vive dello studio dei poeti e lavora ispirando la propria ricerca alle figure dei maestri della letteratura, ricordare nel mese di settembre l’anniversario del settecentesimo anno della morte del poeta Dante non è una ricorrenza da calendario, ma un momento di studio per continuare ad essere teatro di impegno e di confronto con la grande crisi;  un teatro aperto agli interrogativi sociali e culturali del nuovo futuro. Il teatro è la casa dei poeti ed è nato per dare tempo e spazio alla loro voce. Perciò il teatro è luogo di incontro, di partecipazione di ascolto. Dante Alighieri ha studiato l’uomo, le sue debolezze, le paure e i dubbi, la lotta contro il male e il bisogno di avere aiuto, di essere accompagnato nella vita da un maestro per superare quel difficile percorso nel bel mezzo della vita della “selva oscura”. La Divina Commedia è lo specchio della storia dell’uomo nella società senza tempo. In Dante Alighieri la parola si carica di significato e diventa visione. L’immaginazione invece diventa forza e disegna conoscenza, genera ascolto, origina partecipazione. Il sommo poeta, Dante, è senza tempo, il suo ruolo nel teatro è sempre vivo, sempre attuale

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immagine di copertina E come in un concerto risuonan le parole

E come in un concerto risuonan le parole

Critica
di Annarita Risola *

Nella splendida cornice dell’ex Convento dei Teatini, dove basta il
solo sguardo per saziarsi di elegante bellezza, le parole acquistano nuovi
significati. Lo scrittore Stefano Massini nella tiepida serata estiva dell’8
Agosto 2020, nell’ambito del Teatro dei Luoghi fest, ci regala un momento di
riflessione sull’uso, l’abuso e la necessità delle parole, come immediata
possibilità di comunicazione, momento di conoscenza e analisi. Ma oggi, abbiamo
acquisito gli strumenti necessari per comprendere il profondo significato delle
parole?

La verità, perché è da questa parola che parte il primo racconto, è che spesso ci appropriamo della verità, la manipoliamo come plastilina e la trasformiamo nella nostra verità. Così il fatto narrato è alterato, imbellettato, in un fiorire di dettagli tutti nuovi  e inaspettati. Il “ Dizionario Inesistente” si arricchisce via via di nuove parole, tutte coniate dall’autore, perché a lui basta leggere un fatto di cronaca per inventarne una. Un modo spiritoso per non essere ripetitivi, logorroici o noiosi… piuttosto rivoluzionari.

Perché è con le parole che i politici rabboniscono le masse e i poeti rapiscono i cuori… Ecco quindi l’importanza di non farsi manipolare da esse, saperle usare,  e soprattutto conoscerle partendo dalla loro etimologia. Lo scrittore Massini  parla in modo semplice e complesso, utilizzando il fine doppio linguaggio shakespeariano, colto e raffinato, crudo e diretto. Pochi gli elementi in scena: un tavolo in ferro nero e una sedia coordinata con schienale color rosso. Il “ narrattore” Stefano… credo abbia infettato tutti di “ massinite “ cioè quella continua voglia di giocare, come i bambini con i castelli di sabbia,  con le parole…

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Annarita Risola è studentessa Corso di Laurea DAMS e Socia fondatrice
Palchetti Laterali Università del Salento

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immagine di copertina Intervista a Ludovica Rana

Intervista a Ludovica Rana

giovane e prestigiosa artista salentina

Interviste
di Annarita Risola *

«Perché ha scelto questo
strumento?».

«È sempre stato strano e curioso il modo in cui sono arrivata al violoncello. Iniziai a 4 anni con il pianoforte, ma a casa lo suonavano tutti… mamma, papà e mia sorella Beatrice! Che barba (aggiunge uno smile ndr). Espressi ai miei genitori il desiderio di cambiare strumento e loro mi proposero la scelta tra il flauto e il violoncello. Avevo 5 anni e non avevo idea di quale fossero le differenze tra un flauto e un violoncello, poi.. magicamente durante l’estate ci fu un concerto a Gallipoli; ricordo il caldo micidiale, l’umidità tipica salentina ed in programma a Gallipoli quella sera del lontano 2001 c’era il Concerto in Do Maggiore di Haydn suonato dal mitico Enrico Dindo (poi diventato mio insegnante molto dopo). Rimasi incantata e a quel punto non ebbi dubbi.. volevo suonare quello strumento meraviglioso che mi faceva letteralmente sognare..!».

 «Quante ore di studio
dedica al suo strumento?».

«Difficile dire adesso quanto tempo riesci a studiare.. Prima, quando avevo l’opportunità di studiare esclusivamente violoncello, forse non ero cosciente di quanta fortuna avessi! Dopo aver finito il Liceo, gli anni a seguire erano interamente dedicati alla mia formazione come violoncellista e come musicista. Seguivo le lezioni del Master a Lugano e successivamente a Ginevra e non mi rendevo conto di quanto poi, fortunatamente, le cose sarebbero cambiate iniziando ad avere una carriera come musicista e insegnante. Adesso il tempo non è mai abbastanza e ci sono tante priorità e impegni, ma studiare violoncello è la mia prima azione ogni giorno!».

«A cosa ha dovuto rinunciare?».

«Inevitabilmente
lo studio di uno strumento musicale ti mette davanti a difficoltà che si
superano soltanto trascorrendo ore e ore a tu per tu con lo strumento,
necessariamente in solitudine. Forse sono tantissime le rinunce che in questi
anni ho compiuto, alcune sofferte, alcune meno, ma sempre giustificate
dall’esigenza primaria di quello che essere musicista richiede».

«Cosa significa fare musica
classica oggi?».

«Essere una
musicista classica è una sfida complicata in un mondo che si evolve alla
velocità della luce e che si allontana dalla nostra realtà che appare sospesa
nel tempo e nello spazio. Pretendiamo e proteggiamo con grandissimo ardore dei
valori lontani centinaia di anni, capolavori che si alimentano dell’anima dei
musicisti e che trovano sempre giustificazione anche in un periodo storico in
cui la bellezza deve essere protetta con estrema cura. Fare musica classica è
un’opportunità di avere accesso ad emozioni immortali e riuscire ad avvicinare
il pubblico e farlo appassionare usando uno strumento composto con legno di
acero e abete è pura magia».

«Quali
sono i suoi obiettivi?».

«Sono giovane e
come qualsiasi essere umano che guardando il cielo si sente grato, ho mille
sogni e altrettanti desideri e obiettivi, alcuni fattibili (spero), altri meno!
Come musicista spero di avere la fortuna di non smettere mai di amare ed
emozionarmi con il mio lavoro e di poter realizzare nel territorio un micro mondo
dedicato agli strumenti ad arco, miei grandi amori!».

«Attualmente il territorio
Salento cosa offre alla Musica Classica?».

«Attualmente il
territorio salentino offre tanto alla musica classica grazie ad alcune realtà
culturali che lo desiderano fortemente. Ho la fortuna di poter curare assieme
alla mia famiglia una stagione, Sfere Sonore, un piccolo gioiellino
arrivato alla II Edizione, che spero che con il tempo possa diventare quello
che sogniamo. Quest’anno inoltre anche questo meraviglioso Teatro, Il Teatro
Koreja ha aperto le porte alla musica classica dando
un’ulteriore possibilità al territorio di arricchirsi e sono stata davvero
onorata di aver avuto la possibilità di organizzare una serie di 4 eventi con
giovani di spicco che si stanno affermano nel mondo musicale».

«Cosa sta facendo la Musica
Classica per promuovere e far crescere il Salento?».

«Indubbiamente
le bellezze del Salento sono tra le più autentiche in Italia, e qualsiasi
turista rimane affascinato dalla quantità di ricchezza culturale e
naturalistica presente. Purtroppo, temo che la musica classica non abbia lo
spazio che merita di avere perché purtroppo molte realtà culturali con storia
decennale hanno dovuto chiudere i battenti lasciando un vuoto che non è stato
ancora colmato. Ci sono teatri vuoti che aspettano di poter essere riempiti, e
non da concerti pop/rock».

«Da cosa si riconosce il
talento?».

«Difficile
spiegarlo, è un dono probabilmente. È anche però la possibilità di poterlo
scoprire e poterlo approfondire. Assieme a mia sorella Beatrice abbiamo avuto
la possibilità di studiare musica perché nate in una famiglia di musicisti, e
abbiamo iniziato da subito a studiare uno strumento musicale e scoprirci
portate. Riconoscere il talento in qualcuno è accorgersi della naturale
istintività nell’approccio in questo caso alla musica e allo strumento usato dal
musicista. Insegnando violoncello a molti bambini mi sono accorta di come sia
evidente da subito la naturale predisposizione o meno nei confronti del
violoncello da parte di alcuni ed è incredibile poterlo constatare con
tanta facilità».

«Come vive questo preciso
momento storico Ludovica Rana?».

«Questo momento è difficile per tutti, la quarantena! Drammatico parlarne ma sicuramente un momento di arresto forzato e di riflessione obbligata. Dalla vita frenetica e instancabile ci siamo ritrovati tutti immobilizzati da una pandemia che mai nessuno avrebbe potuto immaginare accadesse. Teatri chiusi, concerti annullati e tanto tanto tempo da passare a casa come non succedeva da anni!  Tra un puzzle e un impasto di torta, violoncello ha sempre un ruolo primario ma sto riscoprendo un modo di vivere che non avevo mai sperimentato, e non è detto che sia negativo. Probabilmente ognuno di noi porterà qualcosa di positivo ed edificante con sé quando avremo di nuovo la possibilità di ritornare alla nostra “vecchia” vita che sicuramente non sarà la stessa. Non posso non pensare a come sarà la ripresa dell’attività dello spettacolo, dovremo saperci reinventare musicisti e organizzatori di concerti? Quali saranno i danni economici e sociali di questo momento? Tanti interrogativi e poche certezze a cui spero potremo tutti sopravvivere».

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Annarita Risola è studentessa Corso di Laurea DAMS e Socia fondatrice
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immagine di copertina Rosa, rose

Rosa, rose

Giungere al capolinea e da lì ripartire...

Critica
di Annarita Risola

Un viaggio lungo quanto basta per lasciare una traccia indelebile nella storia della canzone folk, fatta di racconti intrisi di sangue e di violenza, di sconfitte ed umiliazioni. Emozioni che hanno conquistato le persone comuni, che in quelle storie si sono rispecchiate e riconosciute e destato l’attenzione di artisti, come Dario Fo’, che in quelle parole hanno trovato un profondo significato politico. Ma quanto influisce il contesto socio-politico e familiare  sulla formazione di una persona? Rosa Balistreri, la vera protagonista dello spettacolo, nasce a Licata, la città che Giuseppe Peritore nel suo libro, sin dal titolo, definirà: “Licata, città rivoluzionaria”, evidenziando il carattere di una comunità considerata da un lato conservatrice e dall’ altra rivoluzionaria.

Rosa nasce in una famiglia povera e da subito desidera dare il suo contributo. Lo fa utilizzando quello che comprende, essere il suo talento:  cantare. Non ha una bella voce, ma una grande capacità interpretativa, lo fa col cuore. Canta ai matrimoni , alle feste e tutte le volte che ne ha la possibilità, con la complicità della madre e con la paura di essere scoperta dal padre, che da padre- padrone qual è, preferisce saperla sempre a casa. E mentre il 9 luglio del 1943, a Licata sbarcavano gli alleati americani per liberare il popolo italiano dalla oppressione nazi-fascista, lei,  che aveva solo sedici anni, era data in sposa ad un uomo più grande, che non amava affatto. La trama narrativa dello spettacolo è fitta e dettagliata, tutto raccontato nei minimi dettagli e con una tecnica che rievoca il teatro di Eugenio Barba, quello che non fa entrare in empatia con l’attore ma fa pensare e ragionare sui contenuti, più che sulla forma. Poi, l’intensità dello sguardo dell’attrice Angela De Gaetano, autrice anche del testo e la forza interpretativa della cantante Ninfa Giannuzzi, ne sottolineano  la drammaticità. Rosa, rose, una storia che attraversa il percorso privato e pubblico di una donna del Sud.  Una buona occasione  per riflettere e parlare di violenza, di degrado, di miseria, ma anche di forza, di tenacia e di libertà. Quella libertà, che in questo preciso momento storico, attraverso le parole, il teatro ci permette ancora di esprimere. Una libertà di spine e di petali…proprio come le rose.

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immagine di copertina Distanza sociale, parola commissariata

Distanza sociale, parola commissariata

Visioni
di Gigi Mangia

Il 20 giugno, col solstizio d’estate, comincia la stagione della luce, del tramonto del sole sul mare, della linea sull’ azzurro del lungo orizzonte e nello sguardo il desiderio di più infinito. L’estate è il tempo degli incontri, nei cortili, sui terrazzi nelle corti. Le notti nella città, nei borghi sono piene di storie, di parole, di incontri inaspettati che risvegliano la memoria degli affetti nei nostri paesi di ritorno. Il teatro dei luoghi è il tetro delle piazze, dei borghi e dei cortili. È il teatro che si espande, che porta la sua forza fuori, nei luoghi, dove le persone vivono raccontandosi e scoprendosi essere comunità, di non avere paura dei volti e degli occhi festosi per essersi incontrati dopo lunga assenza. Il tetro dei luoghi è ripartenza, è la fine dello slogan “tutti a casa” che è stato di successo. Ora bisogna fare chiarezza anche sul significato delle parole a partire da quella impropria e sbagliata: “distanza sociale”. La parola sociale è entrata nel vocabolario d’Europa dopo la Rivoluzione francese, nel 1800, e indicava un modello di relazioni fra le persone e la presa in carica dello stato il quale si impegnava a rispondere sui bisogni sociali delle classi più deboli, nasceva il welfare sociale. I IPCM del Presidente Giuseppe Conte, di fatto hanno commissariato la parola “distanza sociale” negando il suo valore e riducendola ad un imperio amministrativo di competenza prefettizia, forzando la legge e scavalcando il Parlamento. Il teatro dei luoghi mette fine al commissariamento della parola “distanza sociale” e la riporta al suo vero significato di relazione, di incontro, di condivisione, di convivialità fra generazione e cultura. Le notti d’estate, nel piatto e nel bicchiere sono tempo di allegria sociale, voglia di raccontarsi. Il teatro nelle piazze, nei cortili e nei borghi, racconta e risveglia l’incontro con le parole, con la musica la terra che resiste e non muore mai. Il teatro è nato per impedire l’oblio dei volti e dei luoghi della tua terra.

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Alle porte d’Europa il suicidio dei bambini

Visioni
di Gigi Mangia

Nei campi profughi sull’ isola Lesbo, d’avanti alla Grecia, alle porte dell’Europa i bambini si suicidano perché il campo profughi è un lager, un inferno contro il male, l’odio, più ancora il disprezzo della vita verso la persona. Il suicidio dei bambini, è la morte degli innocenti, morti non della guerra, ma dell’odio del disprezzo del diverso, dell’egoismo, della difesa, degli interessi del portafoglio contro la vita. Il loro è un sangue innocente che non trova neanche il conforto della narrazione nella storia. La loro vita scompare dalla memoria e non lascia traccia. È una vergogna della politica che ha scritto le convenzioni e non ha avuto la capacità di rispettarle per tutelare la vita dei deboli senza casa e senza terra. Il teatro lotta contro l’indifferenza, deve far sentire forte la sua voce per rifiutare il male e dare la parola alla giustizia. I bambini sono il futuro, il teatro è la palestra del pensiero che pensa il futuro. Non bisogna voltare le spalle al dolore e bisogna avere coraggio negli occhi per vedere la tragedia. Il teatro è una casa speciale perché ha l’onore di usare la parola dei poeti per raccontare la morte degli innocenti, dei morti senza nome che non hanno posto nelle pagine della storia.

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immagine di copertina Giornata mondiale del profugo

Giornata mondiale del profugo

20 giugno 2020

Visioni
di Gigi Mangia

Il tema dei profughi, nell’agenda politica e nelle relazioni internazionali dei paesi, è quello irrisolto e manca l’applicazione delle convenzioni internazionali dei diritti, a partire dalla convenzione di Ginevra.

I numeri

I profughi, dal 2010 al 2020, sono raddoppiati raggiungendo gli 80 milioni: la popolazione di un grande Paese. Le cause sono molte e diversificate: dalla povertà al lavoro di schiavitù; dall’indigenza sociale alla mancanza di cure; dall’analfabetismo alla negazione dell’istruzione. Interi villaggi abbandonano la terra e scappano, dalla fame, dalla guerra sfidano le notti perché i cieli delle loro notti sono senza storia, i profughi per i trafficanti di persone sono merce. Nel suo libro “Pescatori di uomini” Nello Scavo, giornalista di Avvenire, documenta questa vergogna internazionale del traffico di essere umani.

La situazione odierna

Oggi la partenza avviene dalle coste libiche. I profughi sono sequestrati nei lager, violentati e obbligati a pagare, le donne invece sono stuprate. L’Italia finanzia l’inferno disumano della Libia, fornisce motovedette per controllare in mare le partenze e finanzia la mafia libica. Sono i capi a decidere, chi deve partire e chi deve restare e continuare a pagare.

La gestione delle partenze è sporca. I trafficanti mettono in mare tre quattro barconi di legno insicuri; quando sono in mare aperto due, tre li abbandonano, un solo barcone lo portano indietro per far vedere all’Italia il loro compito di controllare sul mare le partenze giustificandosi il merito dei finanziamenti. È un gioco di soldi e di morti che nessuno nel nostro paese vuole vedere a partire dal governo. Nel mare c’è l’obbligo di aiutare chi è in pericolo di morte. È un diritto questo nato con la storia dell’uomo, in passato sotto le leggi degli dei, nei tempi moderni sotto la tutela delle convenzioni internazionali dei diritti umani.

Giornata mondiale del Profugo, in conclusione

Davanti al nostro egoismo di rifiutare i poveri profughi, di sentirli nostri avversari, venuti a rubare la ricchezza e i nostri privilegi, la civiltà dei diritti è miseramente caduta e le convenzioni servono solo per scrivere le pagine dei libri di storia del diritto internazionale. L’ ingiustizia è la miseria nel mondo, dobbiamo sentirci tutti colpevoli.

Leggi anche: Giornata internazionale del clima

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