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immagine di copertina 21 marzo giornata mondiale dei Poeti

21 marzo giornata mondiale dei Poeti

Visioni
di Gigi Mangia

Il cielo e la terra sono nelle parole dei Poeti, i
segreti nascosti nei libri. Il 2020 per tutti è un anno speciale. Scopriremo
dai balconi il risveglio della natura. Saranno i fiori che ci aiuteranno a
credere e ad avere forza per vedere con la mente e seguire il loro profumo per
incontrare i colori dei sentieri, fatti tante volte, nei lenti passi per
conoscere la terra che ci appartiene. Nella mente cresce il seme del pensiero
trascendente. Se senti il vento, chiudi gli occhi e riesci a volare; vedi tutto
azzurro. È l’orizzonte che hai sempre pensato e mai attraversato.

Nella foto il quadro di Nicola Cesare, poeta e pittore
nato e vissuto a Maglie dove al liceo Capece ha insegnato storia dell’arte.

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immagine di copertina Le parole ci cambiano

Le parole ci cambiano

Diario di un laboratorio *

Visioni
di Giorgia Cocozza e Anđelka Vulić

Buongiorno ragazzi! Come state?
È un periodo delicato e tanto particolare. Ma insieme riusciremo a superarlo.
Le difficoltà vanno vinte insieme, come la scena ci insegna.
Siete nei nostri pensieri e sentiamo la vostra mancanza.
Ascoltate, io e Andjleka abbiamo pensato ad un piccolo gioco. Vi proporremo una parola al giorno. Ognuno di voi può scrivere un tweet, ossia un brevissimo pensiero, attorno al significato che per voi ha quella parola. Creeremo un altro gruppo whatsapp la cui regola è la seguente: NESSUN COMMENTO.
Su questo secondo gruppo possiamo solo postare il tweet. Nessuno dovrà scrivere altro. Abbiamo il nostro solito gruppo per confrontarci.
Sfida lanciata! Il gruppo si chiamerà LEPAROLECICAMBIANO.
Vi abbracciamo forte anche se da lontano!

LONTANANZA, 16 marzo 2020
La lontananza significa essere soli, allontanarsi da qualcuno, quindi trasmette tristezza, ma anche libertà. Giorgio

Sebbene tu sia così distante da me, sappi che i miei sentimenti non cambieranno. Marco

Ognuno di noi ha tanti fili legati a sé che lo connettono a qualcosa.
In alcuni casi il filo è corto, in altri chilometrico, c’è chi lo ha resistente, chi debole e sottile. Passa il tempo e il filo si tende sempre di più. Per molti è ormai al limite, in alcuni più deboli il filo si spezzerà, ma resterà attaccato a quel qualcosa e al padrone lasciandone memoria. I fili più forti andranno avanti e difficilmente si spezzeranno, finché il padrone di essi non si riavvicinerà lasciando che i fili si accascino a terra
. Giulia P.

Ti cerco sulla linea dell’orizzonte ma tu sei oltre, solo il pensiero ti raggiunge. Stefano

Credo sia l’emozione più forte che un essere umano possa provare. Ti cambia, a volte in meglio e a volte in peggio. Il segreto è saperla solo gestire. Lucrezia

Una persona viene lasciata sola, in un angolo stretto della sua stanza. Non ha amici con cui potersi confidare. L’unica cosa che ha in quella stanza è un libro rosso: lo prende e inizia a sfogliarlo. Pagina dopo pagina, chiude gli occhi e immagina di vivere in un prato, insieme a tante persone a cui vuole bene. Maria Ludovica

Avrei voluto rimanerti accanto ma invece / Ti ho accompagnato lontano da me / Con un sorriso
Giovanna

Mi piace pensarlo. Vorrei dire che tutti siamo vicini ma non è così. Se vogliamo ciò bisogna svoltare l’angolo dei nostri pensieri per trovarci. Valerio

Per me è una parola che mi trasmette insicurezza: mi fa pensare a qualcosa che desidero con tutta me stessa, ma che trovo irraggiungibile. Mi fa pensare a quanto i miei sogni siano lontani dell’avverarsi e da quanta strada io abbia ancora da fare affinché si avverino. Giulia

Può essere una situazione determinata dalla distanza o può essere anche un’assenza temporanea e dolorosa. Può allontanare due persone o può renderle più vicine. Può essere fonte di felicità o di sollievo oppure può creare tristezza e paura. La lontananza può tante cose, ma comincia a significare poco quando qualcuno significa tanto. Antonio

La lontananza ormai non è una cosa di cui parlano tutti perché c’è la tecnologia che ci unisce, ma quelle persone hanno perso quella bellissima sensazione di stare insieme. Markuss

Quel senso di vuoto che ti mangia lo stomaco e prende a pugni il cuore. Emma

Quel qualcosa di soggettivo e astratto che ti perseguita nella consapevolezza che non puoi cancellarla. Giulia M.

La lontananza è solo uno stato di distanza fisica, ma per il cuore tale termine non sussiste perché non ci si allontana mai dalle persone care. Chiara

Qualcosa che non si può spiegare, che non si vede, a cui non puoi scappare. Non è mai prevista ed è questo che fa male. Alle volte si sceglie per cercare di non soffrire, magari tra due persone che si litigano e vogliono prendersi una pausa. Altre volte, tiene distanti due corpi che vogliono toccarsi, guardarsi, ma non due cuori.
Può avere molte sfumature e all’inizio non viene compresa come deve esserlo, ma incomincia a essere importante e a significare, solo quando quella persona che tu non ritenevi importante, è costretta a essere distante da te.
Sofia

SGUARDO, 17 marzo 2020
Lo sguardo comunica lo stato d’animo di una persona ed è lo specchio dell’anima. Ludovica

Durante la nostra vita incontriamo tanti sguardi: sguardi felici, sguardi spenti, sguardi persi, sguardi neutri…
È proprio lo sguardo che ci distingue dalle altre persone ed è proprio attraverso lo sguardo che riusciamo a guardare nell’anima.
Lucrezia

Lo sguardo fa capire ad uno sconosciuto chi sei veramente, lo sguardo vale più di 1000 parole. Giorgio

Può essere un qualcosa che si cerca in un’altra persona, qualcosa che ci “connette” all’altra persona. Ma può essere anche un qualcosa che noi vogliamo evitare perché ciò non ci fa sentire a nostro agio. Magari perché non ci sentiamo giusti, crediamo di non essere abbastanza o magari perché abbiamo semplicemente paura di “connetterci” con quella persona. Giulia C.

Due fasci di luce, in un millesimo di secondo, riescono a farci scansionare un’anima. Giulia P.

Con lo sguardo due persone possono capire dei sentimenti delle emozioni semplicemente guardandosi. Molte persone sottovalutano il potere dello sguardo… Antonio

Ciò che non si capisce ma senti perché troppo intenso, ciò che non si comprende ma che introduce nei nostri pensieri altre persone. Valerio

Per me è tutto nello sguardo perché si può capire come è fatta una persona nell’anima. Markuss

A volte, con gli occhi a fissare il vuoto, diamo l’illusione di stare prestando attenzione a qualcosa, illudiamo qualcuno di avere la nostra attenzione. Stefano

Con sti occhi ho visto le cose più strane, pensavo che guardandoti negli occhi avrei liberato un angelo. Non pensavo fosse un diavolo. Giovanna

Una forma di contatto senza distanza e senza tempo, che trasmette infiniti pensieri e emozioni. Marco

Lo sguardo esprime la profondità dell’anima ed è meraviglioso cercare di capirsi solo guardandosi negli occhi. Chiara

Lo sguardo è la migliore delle risposte. Emma

RITO, 18 marzo 2020
Il rito è un momento magico dove l’anima ha la possibilità di innalzarsi per raggiungere una dimensione al di fuori di quella terrena. Le parole, le formule che si recitano, e le azioni svolte servono ad aprire la porta per accedere a quel mondo diverso e incontrare chi vi dimora. Ludovica

Se vogliamo definire questa parola, possiamo dire che sia una situazione incantata o un’altra dimensione in cui puoi esternare tutti i tuoi sentimenti, le tue emozioni e le tue paure. Lucrezia

È una abitudine che si prende, come un piacere. Ma è qualcosa di imposto. Giovanna

Ripeto, ripeto e ripeto, non conosco se è bene o male, so solo che devo continuare farlo, così mi è stato detto, così ho deciso, perciò ripeto, ripeto e ripeto. Giulia P.

Un’azione che si compie continuamente ad intervalli di tempo regolari. Potrebbe essere un gesto d’amore rivolto a qualcuno o a noi stessi, ma potrebbe anche essere un’ossessione. È ciò per cui una persona vive, qualcosa di cui non si può fare a meno. Giulia C.

Un qualcosa che può portare fortuna o magari è rivolto a qualcuno o qualcosa di cui vogliamo sapere delle informazioni che ci aiutino in qualche modo agli altri sconosciuto. Valerio

Si abbandona tutto per pensare insieme agli altri. Markuss

Il rito è come un festeggiamento che coinvolge tutti, si balla, si danza e si festeggia! Giorgio

Il il rito è una consuetudine che di solito fai e neanche apprezzi, come per esempio la consuetudine di andare a scuola, che in questi giorni ci manca. Chiara

Innumerevoli anime cercano qualcosa, cercano di comunicare, di ottenere qualcosa a loro sconosciuto. Marco

*Pratica in Cerca di Teoria under 17 – esperimento di laboratorio a distanza per la costruzione di pensiero.

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immagine di copertina Il tempo della conoscenza

Il tempo della conoscenza

Critica
di Eleonora Lezzi*

È curioso quanto anche nella disperazione, anche nei momenti in cui servirebbe il conforto e la vicinanza, i pregiudizi riescano a costruire comunque muri attorno a noi che in apparenza ci fanno sentire sicuri, ma che in realtà ci lasciano sempre più soli con le nostre fragilità.

Mario e Saleh è un prodotto giovane, con il quale Scena Verticale  e Saverio Laruina, che ne è autore, regista ed interprete assieme Chadli Aloui, ci propongono uno spettacolo che sviscera i luoghi comuni e riprende le parole della gente, le ruba dalla quotidianità e le  ributta in faccia con tutto il loro verismo rivoltante e sfacciato. Quante volte le abbiamo sentite nei giornali, per strada, sul bus… parole su parole a cui si dà fiato senza attenzione. Quanto costa infatti fermarsi a capire e a conoscersi? Quanto tempo ci vuole per scoprire le differenze che ci accomunano? Perché un musulmano dovrebbe voler stare con un cristiano? che cosa ha in mente? Che cosa trama? c’è qualcosa che non va….si, è vero, c’è ed è la paura della diversità, figlia dell’ ignoranza.

Siamo in una tenda dopo un terremoto, in una tendopoli non meglio identificata. Lo spazio è claustrofobico, asettico e impersonale, il personale è rimasto sotto le macerie delle case distrutte dal sisma. Lì dentro c’è rimasto solo il guscio delle persone, pieno di rancore, amarezza, delusione e disperazione. Un’esistenza, quella di Mario, stravolta una volta e ri-stravolta ancora da una convivenza forzata e imprevista, ma soprattutto imprevedibile. Saleh è figlio di arabi, ma è nato in Italia. Parla arabo ed è un musulmano praticante. Ma questo non vuol dire che sia estremista; non vuole dire che sia un terrorista. Perché poi lo chiamiamo musulmano? Noi non ci chiamiamo cristiani, ma solo italiani. Già, perché noi siamo noi e poi c’è il “voi”: il “voi siete quelli degli attentati”, “voi siete pericolosi” e “voi siete diversi”,  questo è il paradigma di base, il muro contro il quale sbattere i pugni. Le parole di Saleh toccano perché sono vere, sentite. Affondano nel vissuto comune di chi viene additato quotidianamente con quel “voi”.

I personaggi entrano ed escono dallo spazio della convivenza forzata e della conoscenza difficile, lo vivono insieme e lo odiano insieme, sfogando l’imbarazzo di quella situazione così scomoda sugli oggetti, buste, zaini e borse che vengono fatte e disfatte, fatte e disfatte ancora e ancora, precarie, come precari sono i rapporti umani. Saleh, il voi, ha scelto di mischiarsi con il noi. Lo ha fortemente voluto e Mario si interroga incessantemente sul perché. Solo alla fine lo scoprirà, svelando il senso di una domanda ricorrente durante tutto lo spettacolo, su cui anche lo spettatore si interroga incessantemente. Alle sue prime repliche, lo spettacolo si mostra intelligibile su più livelli e ci restituisce con abbondante chiarezza un’immagine nuda e cruda, ma piena di speranza. Un lavoro che non si lascia intimorire dal tirare fuori i luoghi comuni, ma li usa per dimostrarci quanto essi siano veri e quanto ci corrompano nel nostro modo di guardare gli altri e il mondo.

*progetto di scrittura critica “Giovani Sguardi”

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immagine di copertina Il coronavirus invisibile, la fragilità della modernità evidente

Il coronavirus invisibile, la fragilità della modernità evidente

Visioni
di Gigi Mangia

Il coronavirus è invisibile, fa paura e causa la fragilità della modernità.

Si chiudono i teatri e i musei, le biblioteche e le scuole, il Duomo e la Scala a Milano, si dichiara la caccia alla ricerca “dell’infettato zero” e non lo si trova. E l’angoscia del pericolo aumenta perché non si riesce a vedere il volto dell’infettato.  Il vocabolario delle parole nuove, delle paure, della modernità, si è arricchito di una nuova, COVID-19, identificato ma sconosciuto e quindi difficile da combattere e da isolare: manca, infatti ancora, un vaccino. Il coronavirus è invisibile, ed è la sua invisibilità a fare paura, a causare terrore e a pretendere l’identificazione del portatore per difendersi e creare barriere di isolamento, le “zone rosse”. Sono stati sospesi i voli verso la Cina, chiusi i porti, isolate le grandi Province di 6 milioni di persone. Sono state chiuse le fabbriche, rinviate le mostre internazionali specializzate, ma è percepito tutto inutile, perché il virus colpisce e per di più, lo abbiamo in Italia, dove ha fatto già 4 morti. La globalizzazione è andata in crisi davanti ad una virus invisibile. L’Occidente dei paesi del sistema sanitario forte e organizzato, capace di curare tutti, di vincere le malattie e dare fiducia, oggi è in crisi.  Abbiamo fatto esperienze di epidemie. La mia generazione ha fatto il colera a Napoli negli anni ‘70. Da giovane degli anni ‘80, quando eravamo nel tempo felice di vivere i piaceri della rivoluzione sessuale arrivò l’AIDS a frenare i nostri ardori, a rifiutare di dare la mano agli amici, a pretendere la tazza di caffè bollente al bar senza essere macchiata del famoso rossetto. Negli anni successivi è stato un susseguirsi di epidemie: quella della mucca pazza, della peste suina, della Sars, in più gli incidenti delle centrali nucleari come quello di Chernobyl, degli attentati terroristici, quello dell’11 Settembre delle Torri Gemelle in America, a rovinare i nostri giorni, di figli fortunati, ancora in corsa con il benessere. Ora tutto è cambiato: la geografia economica, la Cina possiede il primo Pil per lo sviluppo; è la geografia sociale a rompere le vecchie regole e a modificare gli equilibri fra gli Stati e, soprattutto, a disorientare le nuove generazioni in crisi con il loro futuro. 

Siamo malati di incertezza e subiamo la fragilità della modernità, per questo, viviamo nel terrore. Antonio Scurati, in un suo articolo sul Corriere della Sera del 22 Febbraio “l’inerzia e l’isteria quando va’ in pezzi un’idea di modernità”, sottolinea proprio le difficoltà del nostro tempo. Scrive Scurati: “questo immaginario globale ci dice che la modernità ha fallito: quasi nessuno, purtroppo, crede più nel suo glorioso progetto di previsione e contro, nelle magnifiche sorti di progetto, ci dice anche un’altra cosa: non siamo più capaci di un equilibrato, adulto, (sano) rapporto con la morte”.  Quello della morte, è un tema centrale e ci trova impreparati, sia a viverlo, sia a rappresentarlo. I giovani di oggi, sfidano la morte lanciandosi nel vuoto dai ponti, dai grattacieli, dai treni in corsa, per affermare la forza dell’identità nello spazio di un’emozione. Nel soggetto virtuale non c’è proprio il codice di come vivere la morte e soprattutto, di come raccontarla. 

Per trovare il codice della morte bisogna tornare al senso delle parole, quindi, alla narrazione del morire. Ce lo insegna ancora Alessandro Manzoni, nei suoi Promessi Sposi, quando narra la morte di Cecilia in cui, la sua mamma, porta al carro la sua bambina morta, la bacia sulla fronte e poi torna nella sua casa e dalla finestra la saluta con l’ultimo sguardo d’amore, restando in attesa di altra morte. È una lezione che l’uomo contemporaneo ha perso. 

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immagine di copertina Attrattori, il punto di vista di Salvatore Tramacere

Attrattori, il punto di vista di Salvatore Tramacere

Interviste
di Eleonora Tricarico

Koreja è sempre stata avanti dal punto di vista dell’innovazione, basti pensare che è un luogo al 100% accessibile. Come si è evoluta la struttura anche grazie ad Attrattori?

I Cantieri Teatrali Koreja, fin dalla loro origine, sono stati pensati e realizzati come un luogo aperto e inclusivo. Questo mantra ha accompagnato il progetto e la successiva elaborazione di una grande struttura completamente priva di barriere architettoniche. Non è solo un principio architettonico o estetico, piuttosto è l’oggettivazione di un pensiero artistico, o meglio culturale, di come Koreja pensa e vuole il teatro. Una ex fabbrica di mattoni nella periferia leccese, anche grazie alla lungimiranza delle politiche regionali, è diventata un luogo di cultura, o meglio, di culture, e un presidio di sicurezza per tutto il quartiere che è cresciuto esponenzialmente nel corso di questi anni. Questo pensiero inclusivo è stato maggiormente avvalorato grazie all’AVVISO PUBBLICO PER IL SOSTEGNO ALLE IMPRESE DELLA FILIERA DELLO SPETTACOLO DAL VIVO TEATRO MUSICA E DANZA, che nel 2018, primi in tutta la Puglia, ci ha permesso di inaugurare la nuova foresteria del teatro: 12 posti letti per 4 appartamenti indipendenti. Le compagnie e gli artisti che ospitiamo hanno la rara possibilità di accedere al teatro in qualsiasi momento e quindi di lavorare in assoluto libertà. Sono anch’esse strutture accessibili, innovative, realizzate secondo i principi di efficientamento energetico.  Un unicum nel sud Italia che ci permette di affacciarci ancora più fiduciosi al futuro.

Cultura che sposa la sostenibilità: qual è l’investimento effettuato in tal senso?

Ci si interroga spesso su cosa voglia dire sostenibilità culturale. Che la cultura sia sostenibile è uno degli obiettivi del millennio su cui hanno scommesso le Nazioni Unite. Sostenibilità, poi, è una di quelle parole malleabili che si adattano a più contesti: Koreja, da sempre, ne sposa sia il significato squisitamente economico applicando una politica dei prezzi calmierata e garantendo un’ottima visibilità del palco e quindi dello spettacolo da ogni ordine di fila e numero; che quello più legato alle politiche ambientali e all’accesso garantito alle fasce deboli. Semplicemente, mi piacerebbe pensare, che siamo tutti fasce deboli e che quindi realizzare un teatro dove non si spreca, si ricicla, dove gli spazi per i bambini sono sicuri, dove i nonni possono aspettare i propri nipoti, dove le mamme e i papà possono cambiare agevolmente pannolini, sia un dovere morale di chi fa della cultura il proprio pane quotidiano. 

Il privato ha bisogno del pubblico e viceversa: che ruolo giocano in tal senso i finanziamenti?

Koreja da sempre, pur essendo un soggetto privato, svolge una funzione pubblica: è un collettore di persone ed esperienze, fa muovere l’economia e genera guadagno. Questa funzione è riconosciuta e apprezzata dalle istituzioni statali e regionali. La vilipesa “cosa pubblica”, nel caso di Koreja, ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale, non solo per il supporto economico, ma soprattutto per la lungimiranza e la condivisione delle scelte in campo artistico – culturale. Saper guardare alle realtà del territorio e valorizzarne le eccellenze non è una banalità. Vuol dire, per prima cosa, affidarsi e comprendere la necessità di dialogo tra pubblico e privato, che è l’unica vera forza propulsiva per far crescere la cultura e garantirne luna vita.

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immagine di copertina Il Mediterraneo mare di pace

Il Mediterraneo mare di pace

Visioni
di Gigi Mangia

Il 23 Febbraio, sarà il Papa Francesco, a Bari, a parlare di pace nel Mediterraneo. Jorge Mario Bergoglio, vescovo della Chiesa dell’Argentina, sente viva la necessità e l’importanza di sostenere, nella sua pastorale, la pace, ed è l’unico leader al mondo, a poterlo fare e per di più, ad essere creduto. Il Mediterraneo, nel passato è stato mare di scontro politico e religioso. Fu proprio nel Mediterraneo, dove lo scontro portò alla rottura della Chiesa d’Oriente da quella d’Occidente e dove fallì anche il progetto di tenere unita la chiesa, dall’Imperatore Carlo V, in lotta con il Monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, leader del Protestantesimo. Nella divisione della Chiesa, il Mediterraneo è stato scontro di civiltà e teatro di guerra, soprattutto dopo che le grandi monarchie europee coinvolsero nella loro lotta gli arabi. Il Mediterraneo è la strada che da Occidente porta ad Oriente. Il mare di due culture, di due grandi capitali: Atene e Gerusalemme. Di due civiltà, quella araba e quella cristiana in lotta per il dominio e per il commercio dei popoli tra le due sponde. È stata una divisione sofferta, una lunga guerra subita dai popoli lungo le due sponde. È stata una guerra combattuta nel potere assoluto del simbolo della Croce. La Croce della Chiesa sempre grande, centrale, sempre pregiata, di oro, di bronzo, di marmo. È stato il Vescovo Don Tonino Bello, pastore e profeta, quello che ha preferito la Croce semplice fatta del legno dell’Ulivo, l’albero simbolo del paesaggio e del pensiero del Mediterraneo, oggi scomparso dal Salento. Don Tonino non amava e non vedeva il potere assoluto e centrale del crocifisso nel rapporto e nel credo dei popoli. Il Vescovo di Molfetta, parlava infatti, del crocifisso provvisorio nella chiesa. Per Lui il crocifisso era l’inizio di un nuovo processo della storia della liberazione dell’uomo dal peccato: era una storia da fare passo dopo passo, da raccontare parola dopo parola, sempre in cammino. Don Tonino era pastore e profeta e aveva l’arte della poesia. Conosceva le parole. Le pesava di notte con la bilancia del dolore, nel silenzio del sonno. Le parole erano per lui gli utensili del suo pensiero, del suo essere costruttore di pace. Don Tonino era teologo e filologo, era profondo conoscitore della cultura di Atene e ricco della fede di Gerusalemme. Oriente e Occidente in Don Tonino non sono due mondi, due civiltà, ma una sola strada: quella della cultura delle convivialità unite nella capacità di essere fraternità. La marcia dei 500 a Sarajevo non fu solo un gesto di coraggio di ribellione del frate contro la guerra, ma un vero esempio di come superare la guerra civile di due civiltà tra di loro contrapposte, araba e cristiana, di famiglie divise  cristiani e arabi. Don Tonino è il santo del mediterraneo di pace. Tutti ci aspettiamo, da Papa Francesco la proclamazione di Don Tonino, Santo della Pace che possa finalmente guidare i popoli a superare la guerra a fare la strada della convivialità delle differenze, ad essere fraternità o chiesa unita come predicava il prete di Alessano.

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Nadia Terranova: teorie e pratiche per maturare verso l’infanzia

Interviste
di Giulia Falzea

Donna. Del sud. Scrittrice.
Nadia Terranova è una delle voci e delle penne più autentiche e lucide in questi tempi oscuri. Nata a Messina nel 1978, vive a Roma. Per Einaudi Stile Libero ha scritto i romanzi “Gli anni al contrario” (2015, vincitore di numerosi premi tra cui il Bagutta Opera Prima, il Brancati e l’americano The Bridge Book Award) e “Addio fantasmi” (2018, finalista al Premio Strega, vincitore del premio Subiaco Città del libro e del premio Alassio Centolibri, in corso di traduzione in venticinque paesi tra cui gli Stati Uniti). Ha scritto anche diversi libri per ragazzi, tra cui “Bruno il bambino che imparò a volare” (Orecchio Acerbo 2012), “Casca il mondo” (Mondadori 2016) e “Omero è stato qui” (Bompiani 2019). Collabora con la Repubblica, il Foglio e altre testate.
La Terranova è quello che si dice un’intellettuale impegnata: parla di donne, di misoginia e di politica con garbo e ostinazione. Crede che la letteratura sia una parte fondamentale del portato formativo anche delle nuove generazioni. È la seconda ospite del progetto “Book Parade. La Letteratura spiegata dai ragazzi” il 16 febbraio 2020 al Teatro Koreja. Il libro che ha deciso di regalare alle studentesse dell’Istituto Cezzi di Castro Moro di Maglie è VIA GEMITO di Domenico Starnone. Ci ha spiegato perché.

D: Perché hai scelto Via Gemito come romanzo di formazione?
R: ho scelto Via Gemito perché è un testo che va nel solco della tradizione letteraria nel racconto delle propria famiglia, che vede in Italia il massimo esponente ne “Il lessico familiare” di Natalia Ginzburg e “Memorie di una ragazza per bene” di Simone de Beauvoir. C’è il racconto della propria infanzia e dell’emancipazione di una condizione familiare. Tutto questo c’è con grande onestà e altissima letteratura in Via Gemito

D: Cosa vuol dire essere un’intellettuale donna in Italia nel 2020?
R: Essere una scrittrice nel 2020 significa essere consapevoli di trovarsi in una situazione di passaggio in cui si è presa coscienza del fatto che il maschilismo è sicuramente da archiviare ed è in declino apparente. Tuttavia ci sono dei colpi di coda, perché la misoginia che oggi si vede e viene denunziata è ancora lunga a morire, ci sono molti passi da fare. La misoginia peggiore è quella sotterranea e continua ad esserci una grande differenza e sperequazione nel sistema valoriale per tutto quello che riguarda i meriti attribuiti alle donne.

D: Qual è il ruolo pedagogico della letteratura?
R: Fino a qualche tempo fa avrei risposto che la letteratura non ha alcuna valore pedagogico, in realtà oggi ritengo che ce l’abbia, e che sia probabilmente e soprattutto involontario. I libri più belli sono quelli che ci lasciano qualcosa, ma il messaggio non è quasi mai quello che intenzionalmente ci aveva messo l’autore.

D: Quale frase vorresti che ci fosse scritta nelle aule scolastiche, come memento, ad “imitazione” di quella nei tribunali “La legge è uguale per tutti”?
R: L’espressione che vorrei è “maturare verso l’infanzia”. È un’espressione utilizzata da Bruno Schulz e vorrei he fosse scritta dappertutto.

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immagine di copertina La forza del teatro negli occhi dei bambini

La forza del teatro negli occhi dei bambini

Visioni
di Paola Pepe

Nella società dell’immagine spettacolare dove tutto è veloce e pronto, a che serve il teatro? È quasi un reperto archeologico del passato. Anacronistico per i nuovi nati e, a volte, anche per gli altri. La “generazione Z” è particolarmente complicata: nuovi valori, un virtuale che viene prima del reale e il difficile rapporto nella triangolazione con insegnanti e genitori. Quello che so per certo è che, pur passando gli anni e mutando le tipologie di connessione e di relazione, un filo rosso resta costante: bambini e ragazzi trovano un nuovo modo di “parlare agli adulti” attraverso il teatro. Non solo viceversa. Ne sono certa. Lo vedo accadere ogni giorno sotto i miei occhi. Li vedo crescere di anno in anno, fino quasi a non riconoscerli più. Vedo i loro occhi diventare profondi, vedo mutare il loro pensiero, strutturarsi la loro capacità critica. E mettere radici sottili sottili. Un piccolo miracolo d’artigianato dell’umano, di quel fare semplice proprio del teatro, che è ancora stupore e meraviglia.
Lo spazio-tempo, qui dentro, diventa luogo d’ascolto di sé e dell’altro, manifestazione poetica e a volte dolorosa (mamma, papà, insegnante mi vedi? Esisto per te?) delle loro fragilità, dei sogni e delle prospettive, della ragione e dell’emozione. Di quel sorriso, di quel pianto improvviso o di quella considerazione fatta a voce alta, nella sala buia, che ti lascia quasi senza fiato.
Quell’oggetto rettangolare e luminoso non è il demonio assoluto, è chiaro, ma le milioni di notizie che ci propone, le chat, i social, non trovano forza di umanizzarsi in un corpo. Ecco, il teatro riempie questo vuoto e aggiunge consapevolezza, mantiene vicine le persone e dà senso alle storie. E’ “caldo” ed è bello e potente, a volte scomodo, proprio perché emoziona. Nel foyer di Koreja i bambini colorano, giocano, costruiscono, esplorano. Mangiano. A volte corrono, fanno amicizia. E fanno amicizia anche i genitori e scambiano idee, ricordi, domande. Si perché, il teatro, almeno quello che piace a noi, non ha risposte. Non ha soluzioni né certezze. Solo sentieri e voci. Tracce, occasioni. È un teatro che costruiamo giorno dopo giorno attraverso l’ascolto e la condivisione. Un teatro che riconosce e rivendica nel suo fare, l’autonomia del più piccolo e la sua dignità; un teatro in cui adulti e bambini, figli e genitori si comprendono nel senso più intimo del termine, nel senso di prendere, di contenere in sé, racchiudere. Un contenere che è includere; un capire che è afferrare. Ogni spettacolo è una proposta di gioco “serio” che rivolgiamo ai bambini, ai loro genitori, ai maestri e a tutti gli adulti. È un invito a scoprire la possibilità di pensare, di pensare da soli, di pensare insieme. Gli spettacoli che proponiamo alle famiglie o alle scuole chiedono sempre “qualcosa in più”. Un passettino al di là del semplice, del certo, del conosciuto. E già, perché il teatro non ti passa davanti, devi proprio andare a cercarlo. E non hai un telecomando per cambiare canale o spegnerlo. Sei lì, da solo in mezzo agli altri, anche se hai appena 3 anni e le emozioni bussano. Un piccolissimo, meraviglioso, prezzo da pagare per diventare grandi. Poco alla volta. Basta pensare agli spettacoli in cartellone quest’anno come il Cappuccetto Rosso di Zaches Teatro o Ricordi? del Teatro dell’Argine che affrontano tematiche “serie” o ancora Io e niente del Teatro Gioco Vita o La Gatta Cenerentola di Oltreponte Teatro in scena a febbraio.
Il teatro mi racconta ogni giorno che nessun tema è tabù per i bambini. Nemmeno il sesso, la malattia o la morte.
Spesso mi confronto con genitori spaventati, che non immaginano la forza del proprio figlio. Ognuno di loro ha risorse diverse per gestire le emozioni e, a volte, ne ha molte più di un adulto. Inaspettate. Pensare che non debbano avere paura, li spinge solo ad essere più fragili. E così li assolviamo dalla difficoltà di provare emozioni e di misurarsi con esse. Aiutarli a sviluppare abilità sociali ed emotive è una delle cose più importanti che possiamo fare per prepararli ad un futuro sano. Se raccontiamo loro l’importanza della “scelta” ognuno comprenderà l’importanza dell’assunzione di responsabilità. Fa anche questo il teatro. Questo proviamo a fare quotidianamente.

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Parlare di migrazione è pop

Visioni
di Eleonora Tricarico

Con i soliti termini, con le consuete frasi fatte, con i ragionamenti (il)logici che filano a pennello.

Quanta complessità in questo argomento che abbraccia un mondo intero e che, la maggior parte delle volte, è proprio di più abbracci sinceri che ha bisogno. Il tema della migrazione divide: una sola parola interpretata diversamente fa smuovere gli animi assopiti nel proprio angolino, per il gusto di dire qualcosa, ecco tutto.

Su questo delicato tema, però, dovremmo essere tutti un po’ meno in: meno intolleranti e meno indignati, puntare di più sui propri forse. Forse dovremmo  evitare di cadere in sterili dialoghi, forse dovremmo porre a noi stessi delle domande diverse. Forse.

Un errore condiviso in un mare di disinformazioni ed ecco perché sul tema della migrazione necessitiamo tutti di meno punti di vista ma di più visioni di qualità.

Confondere i principi dell’accoglienza e i diritti umani con un’ideologia politica è il primo errore che si compie prima di cadere nell’insana retorica, seguito da quell’inconsistente consapevolezza che ci sia una scala di degni. Chi si merita una bella vita e chi no. Ed è proprio qui che dovremmo ricominciare a costruire un pensiero laterale, attraverso gli strumenti giusti, quelli che non limitano, ma spalancano.

Inquesto mare enorme di distorsioni che da tempo una certa narrazione del fenomeno sta inoculando nella nostra Penisola, ciò che dovrebbe veramente affondare è l’ignoranza di chi chiude. Braccia, porti e menti.

Ed è qui che
subentra il teatro, con la sua educazione e con la sua cultura: ci siamo
occupati spesso di migrazioni proponendo una concreta opportunità per misurarsi
con questa tematica, per smontare le proprie certezze e ricostruire alternative
convinzioni. E fra pochi giorni abbiamo in cartellone Mario e Saleh, lo
spettacolo scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina con Chadli
Aloui. Il rapporto tra i due attori sul palco costruisce un ottimo trampolino
di lancio su cui riflettere. Scoprire un’umanità nell’altro, non è poi così
difficile ed impossibile farlo, e Saverio La Ruina ci aiuta proprio in questo. Una
nuova narrazione è possibile, quello di cui abbiamo più bisogno è solo più
delicatezza e attenzione.

prossimi Appuntamenti

17 mag

Fabrizio Gifuni

Con il vostro irridente silenzio

23, 24 mag

FORTY!

Koreja in tournée

11 mag

LàQua

12 mag

LàQua

16 mag

LàQua

immagine di copertina Bulli non si nasce, si diventa

Bulli non si nasce, si diventa

Visioni
di Gigi Mangia

Il bullismo è il male che ho dentro; la difficoltà di vivere le mie emozioni; la fatica di fare e trovare la via alla normalità. Io godo dell’inferno delle tue emozioni, che bruciano nel silenzio la tua vita, perché io non ti so rispettare.

Il 7 febbraio, giornata Nazionale del Bullismo,
teatro Koreja l’ha vissuta con gli alunni delle scuole medie della provincia
con lo spettacolo Terry. del teatro delle Briciole.
Bisogna dire, che la settimana scorsa la Camera dei deputati ha approvato la
legge sul bullismo – ancora in attesa di approvazione dal Senato – con la quale
è stato istituito un fondo di soli 200000 euro per tutte le scuole dell’intero
Paese. L’Italia rispetto al bullismo è indietro, mentre nelle scuole dei Pesi
d’Europa esiste la figura dello psicologo, in Italia tale servizio è affidato
alle figure obiettivo e manca un finanziamento per la formazione di tutti gli
insegnanti. Il bullismo è un fenomeno generale, che riguarda tutta la società e
interessa tutte le agenzie dell’educazione, dalla scuola alla famiglia, dal
quartiere alle biblioteche.

Bulli non si nasce ma si diventa.

Woody Allen, una voce importante nel mondo
cinematografico, attento indicatore del soggetto sociale, afferma che: “viviamo
in un tempo di crisi, della morte di Dio, di Carlo Marx, della fine delle
classi sociali, della società, della crisi dell’Io, della sua frantumazione,
dell’Io liquido, dell’emergere di tante forme dell’Io fragile”.

L’Attore Davide Giordano nel suo spettacolo ha
avuto il merito di aprire, con le sue domande, le porte delle emozioni dei
preadolescenti, di quello che Platone chiamava Emozioni dell’anima e poneva
alla base dell’educazione.

lo spettacolo comincia proprio domandando,
interessando il pubblico: “chi sono Io?”

Sono l’Io handicappato, sono l’Io spastico, sono
l’Io grasso, l’Io sbruffone, l’Io faccia di topo, l’Io muso di cane. Sono Io
quello che è incapace di parlare, che ha paura e si siede all’ultimo banco per
stare solo, isolato! Io sono l’Io che sta male. Il bullo è quello che ha perso
le parole giuste e usa quelle sbagliate per fare violenza, per creare consenso,
per affermare il suo potere, la figura del bullo trova il suo agio di
esercitare il male nella figura del camaleonte stampato sulla maglietta di
Terry che ha la facoltà di mimetizzarsi, di scomparire, di nascondersi, di non
essere visto. È il bullo che trova il suo agio e il suo terreno nel Web.

La Pedagogia di Terry è quella di mettere in
evidenza l’importanza dell’educazione, dell’intelligenza emotiva come principio
educativo e formativo, in particolare dei nati digitali nel primo quinto di
secolo del terzo millennio. La famiglia, la scuola, il quartiere, la città,
sono come le vene che attraversano la rete dei rapporti nelle affettività.
L’essere corpo, nel tempo e nello spazio, vuol dire avere la percezione del
passaggio dalla realtà reale a quella virtuale, nella quale l’Io è vuoto, è un
guscio senza sentimenti, privo di passioni.

Koreja è teatro di ricerca. La sua parola
bandiera, nell’azione culturale, è quella del rispetto, del riconoscimento
dell’Altro, della sua accoglienza. La sua battaglia condivisa con le scuole, è
quella dell’educazione aperta ed attenta alla generazione dei nati digitali
perché ritiene fondamentale che abbiamo il dovere non di criminalizzare lo
Smartphone o l’IPad, ma di educare al loro uso.

prossimi Appuntamenti

17 mag

Fabrizio Gifuni

Con il vostro irridente silenzio

23, 24 mag

FORTY!

Koreja in tournée

11 mag

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16 mag

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