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immagine di copertina Scintille: il senso della memoria e il dovere del teatro

Scintille: il senso della memoria e il dovere del teatro

Critica
di Eleonora Lezzi*

Una storia di donne, una storia di lavoro e
di sfruttamento, una storia di povertà e migrazione. Una storia attuale,
tragicamente e sorprendentemente attuale. E’ questo che l’autrice Laura
Scignano ci racconta con il suo Scintille attraverso la voce e i gesti di una
Laura Curino che si fa simbolo e persona.

Se non fosse per il costume secondo la moda
dell’epoca e per quelle vecchie macchine da cucire messe lì sulla scena, le
oggi tanto ricercate e alla moda Singer…se non fosse per quella singola lampada
ad olio che alla fine dello spettacolo si accenderà infondendo nella sala
l’odore  pungente del petrolio, potremmo
tranquillamente pensare che quella raccontata sia la storia di una delle tante
fabbriche tessili che oggi sfornano gli abiti che noi stessi indossiamo. Ma non
è così. Siamo all’inizio del ‘900, siamo a New York, siamo “all’America”; il
Sogno trasformatosi in un incubo.

Caterina, Lucia e Rosa Maltese diventano,
grazie ad una infaticabile e coinvolgente Laura Curino, la voce delle  146 vittime di quella scintilla che alle
16:40 del 25 marzo 1911 bruciò l’ottavo piano della fabbrica di camicette nella
quale lavoravano.

Il filo delle parole scorre veloce da una
all’altra, cuce e scuce legami, svela le complicità e i dissidi tra una madre e
le figlie, tra due sorelle, tra colleghe; ricama nitido il dissidio stridente
tra la necessità e la povertà che ti portano ad accettare qualsiasi condizione
e il bisogno di tornare a sentirsi umani, a veder riconosciuti i propri
diritti. Un ritornello che ci è abbastanza familiare, anche oggi.

Il tempo scorre, le parole si susseguono, i
toni caldi delle luci materializzano perfettamente sulla scena un tempo e uno
spazio che avvolgono lo spettatore in un calore che non è familiare, che non è
accogliente e confortante ma è un calore soffocante e claustrofobico, un calore
di fuoco, fumo e polvere mischiati insieme.

Si innesca la scintilla e tutto precipita, è
un attimo. All’inizio si fa fatica a realizzare quello che in realtà sta
succedendo, a comprendere e a sentire la trappola mortale; il racconto nelle
parole della Curino scivola con lucidità. In un attimo ti trovi ad essere
trascinata dalla folla che cerca disperatamente una via di fuga. La tensione
sale… Caterina, madre forte come una roccia, lotta controcorrente per salvare
le sue figlie. Deve credere che si salveranno, non le può abbandonare e non
puoi abbandonarle neanche tu! La commistione tra la bravura attoriale di Laura
Curino e la bravura autoriale e registica di Laura Scignano fa si che diventino
un po’ figlie e sorelle anche per te. La speranza si trasforma in stretta allo
stomaco quando per Lucia e Rosa lentamente si materializza la consapevolezza
dell’inevitabile che lascia fantasmi senza vita e ombre fredde; le luci
cambiano, impallidisce l’immagine, quella che percepiamo non è più la paura, ma
il terrore. La consapevolezza di essere le vittime sacrificali di
un’ingiustizia ma anche la speranza, viva fino alla fine, di Lucia che, proprio
grazie a quel sacrificio, le cose possano ancora cambiare.

Laura Curino passa da una all’altra, prima è
madre, poi figlia, poi adolescente, poi cento persone e anche di più, ma tutto
avviene senza caos e senza disordine. Agisce e parla con delicatezza, senza
eccessi, anche quando deve rappresentare una madre dura, d’altri tempi, una di
quella a cui la vita non ha riservato di certo tante carezze, o quando da un
momento all’altro cambia e diventa un’adolescente piena di vitalità e
speranze  o ancora quando inizia quel
vortice di eventi che porteranno al dramma…un’azione di una tensione forte che
esploderà poi, sempre con tenera delicatezza, nella voce ferita e svuotata di
una madre a cui la vita è sfuggita via dalle mani.

Nel buio della sala qualcuno piange, si
sentono i sussulti e si intravedono gli occhi lucidi. D’improvviso le figure
fino a quel momento solo evocate delle tante vittime diventano nomi, cognomi,
età; diventano donne e ragazze, potremmo dire bambine, ma anche di uomini. Una
cascata di nomi che alla fine si intrecciano e si mescolano affinché il ricordo
diventi valore concreto e non si dissolva nella massa indistinta e nei numeri.
I numeri sono per gli oggetti e non per le persone, non per donne e uomini con
proprie identità, con desideri, caratteri unici e insostituibili ciascuno con
un suo sogno e una speranza in quella terra nuova tanto lontana da casa.

Tutto infranto, tutto distrutto nell’attimo
di una piccola semplice scintilla.

La riflessione sul presente è inevitabile e
ti accompagna per tutto il tempo.

Alla fine dello spettacolo, durante
l’incontro con Laura Curino, qualcuno chiederà : “ma se la storia si ripete,
questa cosa del ricordare, di commemorare, serve davvero? ”

“ Beh, risponderà lei con una semplicità
disarmante – abbiamo altri strumenti noi?”

*Progetto Giovani Sguardi

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immagine di copertina MBIRA e l’Africa: l’arte è sempre politica…e rito collettivo

MBIRA e l’Africa: l’arte è sempre politica…e rito collettivo

Interviste
di Annarita Risola*

intervista a Roberto Castello

Come salvarci dalla massificazione?
Coltivando la curiosità, leggendo, andando a teatro e al
cinema, documentandosi. Non permettendo insomma ad altri di pensare al posto
nostro, soprattutto a quelli che non lo sanno fare.

Perché MBIRA, perché l’Africa?

Perché il rapporto con l’Africa è una questione destinata ad avere una
enorme influenza sul nostro futuro. Credo sia utile, importante e urgente fare
lo sforzo di provare a capire culture così profondamente diverse per stabilire
con loro, a differenza di quanto gli europei hanno fatto in passato, un
rapporto di reale rispetto. A sud del Sahara sono in corso cambiamenti epocali
di cui sarebbe sotto ogni punto di vista giusto e utile provare ad essere
parte. Fare lo sforzo di provare a capire l’Africa è anche un’occasione per
vedersi dal di fuori e prendere atto del fatto che il mondo può essere guardato
anche in modo molto diverso da quello che a noi sembra ovvio e normale. Pensare
che sbarrare le frontiere europee all’Africa sia una cosa furba e utile, che
giova a noi e ai nostro figli, è semplicemente una scemenza. 

Come nasce l’idea del rito collettivo?

L’idea di fare sfociare lo spettacolo in una festa è nata quando è
risultato chiaro che la linea drammaturgica del lavoro avrebbe dovuto essere
quella di iniziare lo spettacolo con una coreografia scritta in modo
classicamente europeo per slittare progressivamente, attraverso il gioco e
l’improvvisazione, verso forme sempre più influenzate dall’estetica africana;
quando si è scelto insomma di ripercorrere idealmente quel processo che in arte
– in particolare in ambito musicale, ma non solo – in Europa è in corso dagli
inizi del ‘900.

Le ballerine si esprimono in una libera
improvvisazione o sono interpreti di uno schema prestabilito?

La cultura occidentale si fonda sulla scrittura, sulla riproduzione
esatta di un testo, sia esso una musica, una danza o altro, quella africana si
fonda invece sull’oralità, che considera l’inesattezza della memoria un
elemento creativo e implica sempre,

 almeno in parte, la capacità di improvvisare. Lo spettacolo,
come dicevo prima, scivola progressivamente da una modalità all’altra
trasformandosi a poco a poco in una festa in cui ciò che conta non è più la
perfetta aderenza ad una forma prestabilita, quanto la capacità di essere in
sintonia con ciò che sta avvenendo in quel momento.

Qual è l’intento di un simile lavoro?

Quello di provare a fare intravvedere modi diversi di affrontare le
cose.

Perché l’utilizzo di tanti codici e la necessità
di spiegarli?

Perché il teatro è per sua natura un fenomeno complesso ma è
uno. I generi dello spettacolo sono il retaggio di una visione del
fenomeno artistico, arcaica e obsoleta come il nazionalismo, di un’idea
semplicistica del mondo come mera sommatoria di fenomeni elementari. La scelta
di svelare i meccanismi è invece una critica implicita verso quei
tanti artisti occidentali che hanno guadagnato fama e denaro rubando o
rubacchiando ispirazioni ad altre culture e non hanno mai sentito il bisogno di
citare o ringraziare le fonti.

La realtà visionaria, che le ha permesso più volte
di vincere il premio UBU, dove la porterà la prossima volta?

Il ballo sociale continua ad interessarmi molto ed è molto che vorrei
realizzare un lavoro teatrale di gruppo basato su di esso

Quanto di lei coreografo e quanto di regista c’è
in quest’opera?

Non vedo una differenza fra i due termini.

Durante un workshop tenutosi dal 4 al 9 febbraio
2019 nell’ambito del Progetto Azione (intervista di Simona Cappellini), lei ha
detto che paradossalmente è sempre più difficile togliere che aggiungere,
perché?

Perché credo che la perfezione sia quando ogni elemento è necessario e
indispensabile. Individuare ed eliminare le ridondanze è uno dei compiti più
difficili. 

MBIRA potrebbe definirsi un tentativo di teatro
d’avanguardia, dove la parola, la musica e la danza sottendono dell’altro ed
insieme fanno politica?

L’arte è politica, sempre, indipendentemente dal fatto che tratti o
meno espressamente di argomenti politici. Non c’è d’altronde niente di più
politico di un’opera che si professa apolitica.

Penso che il dovere di un artista sia quello di indurre a riflettere, a
riconsiderare criticamente le proprie certezze. Per questo faccio il possibile
per scompaginare le categorie, tutte le categorie, anche quelle
dell’avanguardia, realizzando lavori che cercano di non corrispondere mai alle
aspettative ma risultino cionondimeno leggibili da chiunque.

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Annarita Risola è studentessa Corso di Laurea DAMS e Socia fondatrice Palchetti Laterali Università del Salento

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immagine di copertina Al presente: intervista a Danio Manfredini

Al presente: intervista a Danio Manfredini

Interviste
di Annarita Risola*

Lei parla spesso di solitudine,
perché?

Forse perché percepisco come
condizione drammatica la difficoltà di creare relazioni. Di essere in relazione
col mondo e quello stato di isolamento che ne consegue è quello di una sorta di
esilio, un essere qui senza esserci a pieno, magari relegati in qualche stanza
psichiatrica o in prigione o all’ospizio o chiusi in casa con  la propria
vecchiaia. La condivisione del viaggio penso possa essere una grazia e camminare
sempre da soli, non avere nessuno a fianco, alla lunga può essere triste, a
meno che uno sia votato all’eremitaggio, a un cammino mistico verso il
trascendente e quella è la compagnia ricercata, ma l’umano comune mi sembra che
aneli sempre a un po’ di compagnia.

Ha lavorato in strutture
psichiatriche, quale l’insegnamento che ne ha tratto?  

Innanzitutto il privilegio di
stare vicino a persone con un’unicità, un senso di autentico e speciale, non
 uniformato al resto della società, un’affermazione direi spesso
involontaria, di essere come ci si sente. Ho relativizzato anche molto quelli
che potevo chiamare allora“i miei problemi” di fronte a
biografie con sfondi molto più drammatici rispetto a quelli della mia
vita.

Ho avuto modo di essere
testimone di situazioni drammatiche e di coglierne le parole e i gesti che
emergono in quella condizione di estrema tensione psichica e di conseguenza
un’esplosione di forti emozioni, un aspetto che sicuramente ha
alimentato anche il mio lavoro di attore.

Qual è l’intento comunicativo dei
continui “fermo immagine” all’interno dei quali lei si muove e più volte
vibra?

Non so a cosa si riferisca
esattamente la domanda. Se è relativa ad alcuni fermo immagine di “al presente”
riconosco la figura dell’inizio immobile. Oppure qualche momento in cui viene
in rilievo la presenza immobile del manichino.

Direi che a volte corrispondono
alla tensione che c’è prima di scagliare una freccia dall’arco. Quel tirare
indietro per lanciare in avanti. Altre volte mi sembrano catalizzatori di
immagini che si sovrappongono alla presenza. Come una lavagna che può essere
scritta attraverso le immagini che affiorano. Che una frase dell’artista
Alberto Giacometti che utilizzo nella presentazione di “al presente”:

“ Quando tengo in mano la vita
dei modelli per qualche centinaio di minuti di posa, sento il loro spirito che
vagabonda. Certo, non glielo posso impedire; non ci penso neppure; non
posso coglierli che nella loro fuga.Eccoli percorrere le strade, le piazze, la
campagna, superare le frontiere, gli oceani.”

qui l’immobilità del modello è
intesa come un’immobilità molto dinamica nel dentro, quello stato di fermo
che permette la contemplazione di immagini molto dinamiche del pensiero,
dell’immaginazione.  
                     
                     
                     
                     
                     
 

Cosa emoziona Danio
Manfredini?

Forse tutto quello che fa parte
dell’esistenza terrena: le vicende degli umani, anche quelle degli
animali, delle piante, tutto quello che i buddisti chiamerebbero esseri
senzienti. Questo affrontare l’esistenza ogni giorno, ogni notte, gli
esseri umani insieme alle loro capacità ma anche fragilità, vulnerabilità.
Anche mi può commuovere un albero piegato dal vento su un’isola e resiste
negli anni al passare delle stagioni, delle piogge, del caldo,
del freddo, nella sua solitudine di albero.

Se ci si guarda intorno e si
osserva la vita intorno, c’è di che commuoversi.

Qual è il messaggio
che intende comunicare, oltre quello palesato dalle immagini?

Non penso mai a un messaggio
che voglio veicolare. Vorrei poter invece cogliere il soggetto dell’opera così
come lo percepisco. 

Come nasce questo spettacolo e
perché questo titolo?

Al presente nasce dopo che ho
lasciato la comunità psichiatrica dopo dodici anni di lavoro. Volevo portare
con me un po’ dei pazienti, i solchi che hanno scavato in me nel corso
dell’esperienza. La stanza bianca richiama il luogo della psichiatria, io
incarno i corpi dei pazienti che appaiono al manichino che mi rappresenta: Il
 mio doppio.

Il manichino visita la stanza e
nella stanza come fantasmi appaiono i diversi corpi dei pazienti attraverso il
corpo del commediante.

Vengono a dire la loro. La
dicono a quell’artista pieno di domande e dubbi, sulla vita e sull’arte.

Il titolo “al presente” è
in relazione col passare del tempo. È un lavoro del 1998 che ho portato in giro
per molti anni ed è uno di quei pochi spettacoli che hanno potuto dare
molte repliche. Il tempo passa, le vicissitudini della mia vita cambiano, le parole
che i pazienti dicono sono sempre quelle stabilite dalla partitura dello
spettacolo ma risuonano dentro di me in  modo specifico in relazione al
mio presente. È  brindisi al  tempo presente, un mio modo per
incontrarlo.

Quale il suo prossimo lavoro?

Sto lavorando a partire dal
tema del lager, della shoah. Credo di trattare del tema dell’ossessione,
qualcosa che cattura la mia attenzione al di là della mia volontà. Ma non
voglio parlarne ora, sono in pieno processo di creazione e scopro cosa sto
trattando veramente, solo nel processo pratico delle prove che sono iniziate da
poco tempo.

Come ama definirsi,
attore o performer?

Un teatrante, che cerca di
muoversi con una cerca di praticare aspetti specifici che riguardano l’arte
teatrale, il lavoro dell’attore, la regia, la drammaturgia, la scenografia…

Lei è un artista completo
:cantante, attore, disegnatore, regista ecc. ma cosa l’appaga di più?

Nel migliore dei casi l’insieme
di tutte queste cose. L’arte del teatro permette di combinare queste
diverse discipline e di contribuire con esse a inventare delle opere che le
possano contemplare.

Manfredini  si
considera un “poeta-pensatore”, secondo il pensiero heideggeriano?

Non conosco abbastanza bene il
filosofo in questione, per poter affermare che mi rispecchio  nel
suo pensiero. Posso dire che
un poeta è necessariamente un pensatore.

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Anna Risola è studentessa Corso di Laurea DAMS e Socia fondatrice Palchetti Laterali Università del Salento

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immagine di copertina Mbira, un fiume in piena che rompe gli argini

Mbira, un fiume in piena che rompe gli argini

Critica
di Annarita Risola*

In Africa esiste un concetto noto come Ubuntu, il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri; se concluderemo qualcosa al mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri.
( Nelson Mandela, Novembre 2008)

È il 21 Dicembre 2019 e i Cantieri Teatrali koreja, in pieno clima natalizio ci offrono- Mbira- concerto di musica, danza e parola.

Buio in sala…il silenzio è rotto dal rumore di passi. In fondo al palcoscenico la luce rivela un volto, uno strano strumento e infine illumina il soffitto, che si trasforma in cielo.
Incomincia così un racconto, fatto di suoni strani e magici, accattivanti e di non facile comprensione.
Sulla scena appare una donna, è vestita di rosso, il suo dorso è flesso in avanti e i capelli neri sfiorano il pavimento. Le snelle braccia sono aperte come le ali del marabù e, grazie ad un gioco di luci, la sua ombra plana elegante e leggera sulle pareti. Le mani seguono la musica, sono movimenti ripetitivi e ritmati.
Lentamente la danzatrice – Giselda Ranieri danzatrice di formazione classica, specializzata in Danza al Dams di Bologna – sposta il corpo di lato e porta le braccia in alto mentre le sue mani vibrano. La donna è a piedi nudi. Ora muove solo le braccia, avanti e indietro, ruota su se stessa, sulle punte, con il palmo delle mani sempre ben visibile e a braccia aperte inizia a ruotare per poi, alternando i piedi e le braccia, piegare gli avambracci su di sé. Il ritmo inizia a spezzarsi sovrapponendosi per breve tempo ad un altro.
Destra, sinistra, si alternano le braccia e ondeggia il corpo per poi fermarsi.
Buio…
Si sente il suono di un tamburo che scopriremo poi essere un tamanì, il cosiddetto tamburo parlante. Lentamente si illumina il volto del musicista – Zam Moustapha Dembélé il Griot del Mali, il cui significato in Africa è “artigiano della parola” e “portatore di pace” – è in alto, al centro del palco.
Presente in scena Roberto Castello, coreografo, regista dello spettacolo e voce narrante. Da gentile padrone di casa saluta e poi ci parla del Biafra in Nigeria e nella storia di Mbira, che è anche una composizione musicale del 1981 al centro di una diatriba tra Africa ed Europa.
Poco più a destra due donne iniziano a ballare un movimento ritmico con la testa. Alla danzatrice Giselda si è aggiunta Susannah Iheme, danzatrice e performer. Indossa una maglietta nera corta e una gonna bianca.
Iniziano a fare delle variazioni al movimento della testa, alternate a salti e spingendo le mani dietro si elevano. Elementi ritmici caratterizzano i movimenti dei piedi e delle braccia, marciano, saltano e guardano il cielo.
“ La diaspora africana ha modificato il gusto del pianeta” – dice la voce narrante.
Ora il protagonista è il balafon, il suo suggestivo suono suggerisce alla donna con l’abito rosso una danza basata sulla sinuosa mobilizzazione dell’area lombare.

Ma cosa rappresentano questi micro-gesti ritmati, un linguaggio? e le ombre proiettate sulle pareti cosa vogliono comunicare?

Il musicista spiega gli strumenti e la loro epoca, Kora, Balafon…
Nelson Mandela diceva:” Noi siamo ciò che siamo per quello che tutti siamo”
E così la voce diventa coro e si sprigiona nell’aria come un profumo che genera allegria.
Il pubblico viene invitato ad alzarsi e a seguire il ritmo da loro proposto. È coinvolgente, viene voglia non solo di ballare, ma anche di cantare. Sul balafon il musicista esegue dei virtuosismi e con i martelletti batte veloce sulla tastiera.
Seguono le percussioni di Marco Zanotti – insegnante percussionista e fine ricercatore del suono.
E poi…” A djara…djara djara”( che significa “ è buono”), tutti cantano felicemente.

MBIRA è un viaggio alla scoperta dell’origine della musica e del ritmo africano. Uno spettacolo nello spettacolo, partecipato, dove lo spettatore come in un inatteso ma gratificante atto liberatorio è coinvolto in quello che può essere definito un lavoro sulle emozioni.
Abbiamo dunque assistito ad un rito collettivo, difficile parlare del suo significato più profondo ma quello più immediato è: la gioia di un incontro. I protagonisti infatti si mischiano al pubblico che diviene protagonista.
“Nessun intento mimetico, tutto è creato ex novo, passo passo. Molto poco è lasciato all’interpretazione” così dice Castello. “Le cornici rimangono rigide, sono passi di danza contemporanea e d’avanguardia”.
MBIRA è un momento di condivisione e di politica, perché quest’ultima la di può fare anche divertendosi e comunicando temi importanti con leggerezza. Mbira lascia la traccia della storia e la voglia di conoscere e di approfondire. Lo fa con entusiasmo e accattivante allegria, senza la pretesa di trovare soluzione. E va oltre lo spettacolo, perché è un progetto che si collega ad altri, comunicando valori di condivisione, fratellanza e di pace.
Non è forse questo lo scopo del teatro e dell’antropologia teatrale?
Duvignaud afferma che la società ricorre al teatro ogni volta che vuole affermare la sua esistenza o compiere un atto decisivo che la mette in causa, per Turner invece il “ dramma sociale” serve a far emergere, a elaborare ritualmente ed eventualmente risolvere i conflitti latenti nella struttura sociale.
Dialogare per ricostruire la micro società e il legame dell’individuo con il gruppo. Ecco, forse, cosa si è tentato di fare e lo si è fatto senza troppi orpelli, perché è l’uomo stesso a riempire la scena con la sua forma e contenuto.
Per la prima volta non ci si pone la domanda di come questo spettacolo possa risultare e di quanto consenso riscuoterà da pubblico e critica, ma lo si “vive” nel piacere della condivisione, sostenuta e allietata da un sapere storico, antropologico, sociologico e musicale. La danza, apparentemente subordinata alla musica, è in realtà protagonista già sul piano visivo. Le danzatrici sono un fiume in piena che rompe gli argini, sono lava bollente che lambisce il pubblico e sono parole non dette che piano piano acquistano un senso: quello della condivisione, dell’allegria, dell’unione tra popoli, della matassa raccolta che alla fine si srotola, intrappolando e trascinando con sé, nel suo lungo filo di vitalità, tutti gli spettatori diventati, involontariamente, piccoli tasselli di un unico progetto, primordiale e condiviso.

*Progetto GIOVANI SGUARDI
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immagine di copertina Il coraggio di conoscere e il dovere di ricordare.

Il coraggio di conoscere e il dovere di ricordare.

Visioni
di Gigi Mangia

Il
Teatro Koreja ha sempre avuto interessi verso la storia. Il suo credo
pedagogico è stato quello dello studio, della ricerca e della riflessione. Il
metodo è stato costruito con attività di laboratorio, coinvolgendo gli
studenti, le famiglie, il quartiere in esperienze performative e rappresentando
i capitoli più impegnativi della storia del nazifascismo del secolo breve. Il
teatro che si impegna a vedere la storia, deve educare al coraggio di conoscere
e al dovere di non dimenticare: l’uomo è il tempo pieno della sua storia. Io
rispetto, studio e ricordo. Io non odio.

La
Repubblica sociale italiana di Salò, voluta da Hitler, fu utilizzata per la
persecuzione degli ebrei. L’ordinanza n. 5 del Ministero degli Interni, firmata
dal Ministro Buffarini Guidi, il 30/11/1943, stabiliva di internare tutti gli
ebrei, sanciva la loro totale eliminazione. Gli ebrei, infatti, dovevano essere
portati nei campi di internamento e dovevano subire la confisca dei loro beni
che sarebbero stati acquisiti dalla RSI. Per facilitare la cattura degli ebrei
fu introdotta una taglia: 5 mila lire per gli uomini, 3-4 mila lire per donne;
mille o 2 mila lire per i bambini. Fu questa una misura vergognosa, che molti
italiani usarono per intascare denaro. Fu una delle pagine sociali più
vergognose della storia d’Italia, per gli italiani che non ebbero il coraggio
di sottrarsi ai nazisti. Nel nostro Paese non fu però tutto negativo perché ci
fu anche chi si impegnò, rischiando la propria vita, a salvare gli ebrei dai
nazisti. Una forma di solidarietà, molto bella significativa e creativa fu
quella dell’Ospedale San Raffaele di Milano. I medici dell’ospedale per salvare
dalla morte gli ebrei, li ricoveravano scrivendo nella cartella clinica di
essere affetti dalla malattia K: una falsa malattia che portava l’iniziale del
nazista Kappler. Anche la Chiesa dei preti si impegnò per salvare gli ebrei,
mentre la Chiesa ufficiale si comportò diversamente: il Papa e il Vaticano non
fecero niente per gli ebrei contro i nazisti, perché avevano paura di subire
l’invasione e le ispezioni delle SS nello Stato Vaticano. Le SS facevano paura,
avevano potere assoluto e per questo la gente preferiva non vedere o essere indifferente.  Il Papa si comportò secondo un preciso
calcolo politico e cioè quello di non essere coinvolto dal nazifascismo
affinché la Chiesa non subisse nessuna ingerenza, né nella dottrina né nella
sua organizzazione. La storia non si può dimenticare, l’oblio perciò è fatto di
pagine inutili, bianche senza righe e senza parole. L’uomo deve ricordare se
vuole evitare il male, soprattutto deve imparare a non odiare il diverso. 

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immagine di copertina Liliana Segre: la tua scorta siamo tutti noi

Liliana Segre: la tua scorta siamo tutti noi

Visioni
di Gigi Mangia

Rifiutare ogni forma e manifestazione di discriminazione razziale, affrancare il dibattito pubblico dall’odio verso l’altro, il “diverso”, combattere le risorgenti tendenze neo-naziste in tutto l’occidente sono le sfide che ci devono vedere tutti impegnati: nessuno escluso. Lo scandalo di un Paese liberatosi con la Resistenza e a prezzo di milioni di morti dal fascismo che oggi si trova a dover proteggere una donna di 89 anni, testimone vivente delle pagine più oscure della nostra storia, è il segno di un popolo che oltre a non aver fatto interamente i conti col passato sembra aver rimosso ogni argine sociale e culturale al risorgente delirio nichilista dell’ideologia fascista. L’episodio deprecabile dell’astensione nel Senato della Repubblica di tutti i rappresentanti del centro-destra sul voto per l’Istituzione della commissione Segre, così come l’attacco incendiario subito dalla libreria “LA Pecora Elettrica”, autentico presidio di democratico e antifascista in un quartiere periferico, sono le prove più evidenti e preoccupanti di questa deriva. E di fronte a questa situazione tutti i cittadini che si riconoscono nei valori fondanti della Costituzione della Repubblica Italiana hanno l’obbligo di non restare in silenzio e nell’indifferenza. Tutti insieme abbiamo l’obbligo di riaffermare un primato sociale e culturale dei valori della libertà, della democrazia e della solidarietà e nel nostro quotidiano dobbiamo come Liliana Segre combattere con le parole che riaffermino il valore imprescindibile del rispetto verso ‘l’altro’. Liliana Segre deve nella presidenza della commissione e nella sua battaglia sentire il nostro sostegno per non sentirsi sola nei palazzi delle istituzioni e isolata nel Paese. E così grazie alla sua guida e al suo coraggio saremo in grado di affrontare il risorgente clima d’odio e spazzare con una ventata di aria fresca di ogni forma di violenza. 

Siamo tutti Liliana Segre. 

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immagine di copertina L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

Critica
di Annarita Risola

Come acrobati, sempre in bilico tra l’esterno e l’interno dell’io, si giunge, a volte, in quel mondo parallelo fatto di percezioni alterate, di sovrapposizioni d’immagini e di ricordi forse mai vissuti. 

Ma qual è il confine oltre il quale il normale viaggio nell’immaginario si trasforma in patologica follia?

Ed è forse l’atavica paura della solitudine che porta l’uomo ad alterare la propria mente e a creare fantasiosi compagni di viaggio?

Danio Manfredini è l’attore e autore di Al presente, ma anche regista e “cantante”.

Il suo percorso di formazione inizia negli anni ‘70 presso il Laboratorio del Centro sociale Isola, dove studia con Cesar Brie, Iben Rasmussen, Dominique De Fazio e Tadashi Endo e poi continua nei Centri autogestiti di Milano e nelle strutture psichiatriche.

Il suo obiettivo, come egli ama sottolineare, è quello di evidenziare l’eterno conflitto tra l’incontro e la solitudine. 

Al presente fa il suo debutto 21 anni fa e permette a Danio Manfredini, l’anno dopo, di vincere il premio UBU come migliore attore. Siamo nel 1999.

La sala dei Cantieri Teateali Koreja, il 14 Dicembre 2019 è gremita.

La scena appare completamente bianca: le pareti, il pavimento, come pure i pochi arredi composti da una sedia posta sulla destra, un comodino da ospedale sulla sinistra e una panchina al centro.

Sulla parete frontale, uno dopo l’altro, sono proiettati quadri acquarellati (disegnati dallo stesso Manfredini ) che, in contrasto con il bianco della scena, sembrano rappresentare un’altra parte del mondo, quella colorata. Sono immagini di quotidianità, di passeggiate in bicicletta, di uomini sulle panchine usate come letti di notte nell’indifferenza dei passanti.

Anche Danio Manfredini è vestito elegantemente di bianco, così come l’uomo seduto che porta in scena, simile a lui nelle fattezze, una sorta di “pensatore” di Rodin, anch’egli scalzo e così inespressivo da far comprendere ben presto che si tratti di un manichino.

Due uomini agli opposti: l’uno statico, l’altro come ingoiato da un ciclone, che ruota intorno a sé, incorporando via via le storie, probabilmente vissute all’interno di un luogo psichiatrico.

Questa dualità racconta, forse, parte di un mondo che ci vuole semplici automi, privi di parola e dall’altra uomini fragili che assorbono e subiscono i pensieri altrui. Manfredini sulla scena è un uomo in continuo tormento. I suoi movimenti sono ripetuti, ritmici e nevrotici a rappresentare un mondo interiore fatto di mille emozioni che erutta come un vulcano. Un mondo, che per la sua intemperanza rievoca quello dei folli, non sempre rinchiusi in asettici ospedali; delle persone sole, che dialogano con se stesse e che si fanno compagnia ricordando i tempi passati e i frammenti di vita già vissuti.

Ma cosa rappresenta tutto quel bianco ?

Un luogo sterile o solo un luogo intimo violato, reso forzatamente pubblico e messo sotto un enorme riflettore? 

Come fermare quei ricordi, se non ripetendoli nella speranza di non dimenticarli?

L’unico modo per esprimere la sofferenza interiore è gridarla. E ciò che fa ordine in questo marasma di emozioni è l’armonia dell’inquieta, equivoca, ambigua staticità, di colui che pare guardare, riflettere e anche ascoltare le canzoni che, una dopo l’altra, fanno da colonna sonora.

Ma il suo canto è triste, come il suo volto, tinto di bianco che evidenzia i suoi occhi contornati di rosso.

Le mani dietro la schiena, le cui dita danzano come un pianista sulla tastiera, ma ciò che toccano sono vecchie note dolenti, la spazzatura che brucia vicino la casa dove abita col nonno e la mamma, mentre il padre prepara il sapone per il bucato. E tra un grido e un gemito, pone una domanda: “hai mai desiderato un’altra vita? […] Io l’ho desiderata”, risponde. Poi inizia vistosamente a tremare e a girare la sedia e vorrebbe che gli spettatori lo accogliessero con odio, in attesa della sua esecuzione. Evidente la sua allusione al lavoro teatrale dello scrittore tedesco Georg Büchner intitolata  “Woyzeck”, dal nome del protagonista, il barbiere omicida, impiccato nella piazza del mercato di Lipsia nell’Agosto del 1824. Egli la utilizza – come lo stesso autore dirà in un’intervista rilasciata a Gianni Manzella nel’98 – con la funzione di rendere il senso di ribellione.

La luce irrompe sulla scena, ed egli dice che vorrebbe riuscire a prendere il cuore per accarezzarlo, poi si copre con il lenzuolo, mentre si ode ”ti amo tanto, ti amo tanto”. Ora il protagonista occupa il centro della scena. C’è un gioco di  ombre sullo sfondo; come trino appare alle pareti e dopo aver platealmente indossato gli occhiali neri, dice che Dio non esiste, poi li ripone in tasca e augura “Buon Natale”. E continua: “Non si è mai completamente infelici”. Poi, seduto,  simula l’assenza di una gamba. Sulla canzone “Sally” di Vasco si accende una sigaretta e tossisce, la sua voce è commovente e le parole del testo “Perché la vita è un brivido che vola via…” sono un’ altalena sulla quale lasciarsi cullare. Poi è una donna che dal cassetto prende un librino, si fa il segno della croce e chiede di essere perdonata. Sono tutti frammenti di vite vissute, voci fuori campo. “  Ma le parole sono destinate a perdersi … e si può andare all’inferno anche senza scarpe “. Ma perché è senza scarpe? Forse per far comprendere che ora lui sia qui, nel presente, a mostrarsi nella sua fragilità. La luce inizia  a riempire gli spazi occupati prima da sentimenti nostalgici e negativi . Un’ultima immagine proiettata e un romantico sguardo all’infinito. Poi, lentamente, l’attore ruota capo. Il suo sguardo è celato dai grandi occhiali neri, ma altrettanto grande è il sorriso che offre, mentre con maestria attoriale s’inchina, per poi svanire nella luce.

Corso di Laurea DAMS // Progetto Palchetti Laterali Università del Salento

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immagine di copertina La ragione del terrore di Koreja: intervista a Michele Cipriani e Maria Rosaria Ponzetta

La ragione del terrore di Koreja: intervista a Michele Cipriani e Maria Rosaria Ponzetta

Interviste
di Annarita Risola*

Oggi più di prima il divario tra le classi sociali appare evidente. Secondo lei è frutto di una politica sbagliata o di un’ ineluttabile situazione umana?

MICHELE CIPRIANI: Sicuramente la condizione umana porta con sé una parte di egoismo e volontà di curare solo Il proprio personale interesse. Questo è un problema che c’è sempre stato nella storia dell’umanità. Quella che noi raccontiamo è la storia dell’immediato dopo guerra. A livello teorico ci sono le condizioni sociologiche e tecnologiche per risolvere questo divario. Ripercorrendo la storia, se alla fine dell’800 le lotte di classe avevano cercato di ridurre quel divario e nella metà del ‘900 si era manifestato un minimo di miglioramento. Dalla fine del secolo scorso, all’inizio di questo, c’è stata una inversione di marcia. Tale divario infatti, oggi è ritornato, come conseguenza. forse, di politiche sbagliate.

MARIA ROSARIA PONZETTA: La politica ha certamente una gran parte di colpa nel radicalizzare il divario tra le classi, anche se oggi è cambiato molto il concetto di classe  o di appartenenza ad una classe sociale. All’interno di una stessa classe, molte sono le differenze sociali, le rivendicazioni, i bisogni, le necessità. Non si può parlare, oggi, di una vera coscienza di classe unitaria. E’ un momento storico, questo, in cui sembra quasi esserci il rischio di una involuzione, per quanto riguarda diritti e conquiste sociali. Ideologie anticostituzionali, che sembrano ritornare alla ribalta. Assistiamo ad una vera e propria campagna di distrazione di massa e di disinformazione totale da parte dei media e di un certo tipo di politica palesemente volta a suscitare odio e violenza. Le persone vengono incasellate secondo alcuni parametri, dettati da un sistema politico, economico e sociale, che classifica persone di serie A e persone di serie B. Si dice che quando si è convinti che i propri problemi dipendano da chi sta peggio, ci si trovi di fronte al “capolavoro” delle classi dominanti. Siamo in balìa di politicanti che sfruttano e indirizzano il malcontento e l’intolleranza di quella parte di popolazione che subisce la crisi mediante “fenomeni di impoverimento”. Si tende a cercare capri espiatori nelle minoranze di vario genere, là dove, cioè, ci viene suggerito. Ecco che una politica discriminatoria, secondo la quale un essere è superiore o inferiore ad un altro, determina un forte indebolimento del senso di comunità e dell’empatia sociale, producendo un peggioramento della qualità della specie umana, che tanto “umana” sembra non essere più.   

Qual è la vera povertà?

MC: La vera povertà è l’impossibiltà di gestire autonomamente la propria vita. Gli amanti della democrazia, sostengono che già il fatto di poter esprimere la propria opinione sia sinonimo di democrazia. In realtà le distanze provocano la vera povertà. L’uomo,  quando non può pensare al proprio futuro,  soffre.  Il protagonista del nostro spettacolo, diventa violento proprio quando smette, giocoforza di pensare al domani.

MRP: La povertà è sicuramente la mancanza di beni di prima necessità, ma da questa povertà si può uscire in qualche modo, con l’aiuto di altre persone che ci possono sostenere quando rischiamo di toccare il fondo. La povertà da cui si fa fatica a uscire, è l’egoismo che non ci fa mettere nei panni dell’altro e ci fa vivere dei sentimenti di finto buonismo. La vera povertà è l’ignoranza, la mancanza di cultura e di informazione, “la povertà della testa più che delle tasche”. Per uscirne abbiamo bisogno della forza di un nuovo progetto, di una visione nuova, di ideali, di speranza. Tutte cose che la paura uccide. E’ chiaro che per avere coscienza di questo, bisogna che una fetta della popolazione raggiunga un sufficiente livello di qualità della vita. Ma la sfida da lanciare, come singoli e come comunità, non è tanto economica, quanto soprattutto sociale, politica ed etica. Da una parte vi è la necessità di maggiore giustizia sociale, dall’altra vi è la necessità di uno sforzo dal basso, da noi stessi, di non cedere a questo rancore, alla paura, di capire che non è il vicino il nostro nemico, né lo straniero, né il povero. Capire che la rivendicazione dei nostri diritti ha il limite nei diritti dell’altro, che sono forse gli stessi.  

La povertà porta inevitabilmente alla cattiveria e la cattiveria porta a delinquere?

MC: Non è detto che la povertà porti alla cattiveria. Sostengo altresì la possibilità, per ogni essere umano di poter scegliere, a prescindere dalle  condizioni esteriori in cui è costretto a vivere.

MRP: Secondo me la cattiveria non è necessariamente una conseguenza della povertà ma la conseguenza del malfunzionamento di un sistema economico sociale capitalistico che determina, un impoverimento culturale di chi si trova nella parte, ben più grande, della popolazione che subisce la crisi. Il vero problema sta in chi sfrutta le ragioni di un malessere contro una determinata classe sociale, nelle minoranze di vario genere, migranti, nomadi, “diversi” in generale. Questo meccanismo, soprattutto in casi di crisi, viene usato dal potere per indirizzare la rabbia contro le minoranze. Un sistema che falsando le ragioni aumenta e nutre il “cattivismo” dei poveri e, forse, legittima la violenza verso gli altri. 

Perché la necessità di raccontare storie?

MC: La ragione del terrore offre la possibilità di analizzare i comportamenti umani attraverso la narrazione degli eventi, cercando di provare a raccontare in realtà, quelle che possono essere le ragioni che stanno dietro anche al dolore che ha provocato un assassinio così efferato. Quando vediamo questi atti, li decontestualizziamo perché vediamo soltanto l’ultima parte dei comportamenti umani, che sono sempre molto complessi. Dietro ci sono sempre delle motivazioni profonde.  Credo che il tentativo di questo spettacolo, sia proprio quello di spiegarle.

MRP: Raccontare questo tipo di storie è importante e necessario. Il teatro è il luogo delle storie. Di cosa dovrebbe occuparsi il teatro se non della vita, delle storie che ci possono aiutare a riflettere, a porci delle domande, a guardare da più punti di vista, a capire che di verità non ce n’è solo una, ad indagare le ragioni che spingono ad un determinato comportamento. Il teatro che mi piace fare e guardare, che propongo e promuovo sempre nei miei laboratori alle nuove generazioni, è un teatro che si pone come obbiettivo quello di “ripensare” il mondo. Un teatro che, rispetto a particolari situazioni sociali, politiche e culturali, diventa uno strumento valido d’impegno sociale di denuncia e di critica di tutte le forme di potere. Il teatro dei buoni e dei saggi, il teatro che considera il male non estraneo alle caratteristiche umane. Il teatro sociale, il teatro civile e il teatro incivile. Il teatro che prende dalla cronaca per lanciare messaggi sociali e il teatro che, al di là della cronaca e della storia, si pone il problema di durare nel tempo portando con sé la poesia della scena.

Chi può salvare l’uomo?

MC: Io sono fermamente convinto che tutto quello che succede, avviene dentro di sé, perché ogni uomo ha tutto un suo universo, fatto anche di ricerca del benessere, da non confondere con il soddisfacimento dei più banali bisogni, ma la ricerca di quella che potrebbe definirsi la vera salute, cioè quella psichica, fisica e anche spirituale. Per fare questo, sono convinto che l’uomo debba lavorare molto sulla conoscenza di sé. Questa per me è l’unica possibilità per cambiare le cose. Ma cambiare le cose dall’esterno è molto più difficile. Siamo nell’epoca del post-tutto. Post-ideologia, non ci sono grandi ideologie che possano spingere l’uomo ad andare verso questa o quella visione politica della realtà. E’ un’ epoca post-teologica, la religione non è più importante come  un tempo, lo è soltanto per distinguersi dagli altri, per dire “io sono meglio di te”. Se da un lato tutto ciò non ci offre punti di riferimento, dall’altro ci responsabilizza. La bellezza dipende solo dall’uomo. Pensando alle parole del teologo Vito Mancuso o dello scrittore e filosofo russo Dostoevskij, ritengo che la lotta tra popoli sia inutile e mi auguro che tra qualche secolo non ci si occuperà più delle differenze  tra  popoli. L’unica forma di salvezza è data dall’osservazione della bellezza. 

L’amore, in quanto unica innata ricchezza, può fare ancora oggi da sprone al cambiamento?

MC: Sì, è chiaro che l’amore sia a livello relazionale, il compimento della bellezza. L’amore è una relazione armoniosa fra me e il mondo che mi circonda. Se io rendo concreta questa bellezza, questa armonia nella vita di tutti i giorni, nelle relazioni con gli altri esseri umani e con le cose che mi circondano, mi muovo in quel sentimento che si chiama amore. Così l’amore può spingermi a cercare delle soluzioni buone, belle e giuste e dunque, contrastare il terrore e la miseria umana.

Cosa rappresenta il vero terrore, la fame o l’incapacità di cambiare?

MC: Il terrore è la reazione più elementare e caotica alla fame, al bisogno. Penso che il terrore sia in stretta relazione con la paura di non riuscire a soddisfare i nostri bisogni primari. Quando viene a mancare  ciò che consideriamo  necessario per la nostra vita, abbiamo due cose: provare ad affrontare le difficoltà, cercando di mantenere integra la nostra umanità, oppure cercare di reagire nel modo meno sano, cioè facendo riferimento ai nostri istinti primordiali, quelli appartenenti agli uomini delle caverne. Penso che il terrore sia più l’incapacità di cambiare, che la fame in sé per sé. 

Ancora attuale il terrorismo psicologico, che alimenta l’individualismo e rende inette le persone che dovrebbe maggiormente  tutelare.  Al di là di ogni schieramento politico, come uscirne?

MC: Non lo so. Rimango fermamente convinto che dipenda da noi. Questo è un momento di grande confusione. Un tema molto importante è quello della tecnologia. Ritengo che il progresso tecnologico sia, in questo momento, inversamente proporzionale al progresso umano. Stiamo diventando sempre più potenti tecnologicamente, soprattutto una parte ristretta della società, mentre dal punto di vista umano, stiamo regredendo. Bisognerà imparare ad avere un rapporto corretto con la tecnologia, perché ho paura che in futuro possa modificare il concetto di umanità. Ci sono dei grandi problemi, sociopolitici, economici ed ecologici in questo momento storico, però le persone continuano a pensare alle piccole crepe che hanno sotto i piedi, alle piccole cose quotidiane. Bisognerebbe pensare ai veri problemi che in questo momento affliggono il nostro paese.

Ragione e terrore, due parole apparentemente inconciliabili, eppure storicamente così freddamente realizzate, come sottrarsi alla logica del male?

MC: Dalla logica del male si esce col lavoro, un lavoro quotidiano. Ognuno di noi appena si sveglia è immerso nella propria vita, nei propri problemi. Ma, citando ancora Vito Mancuso, si può vivere o esistere. Vivere è svegliarsi la mattina e pensare di soddisfare i bisogni primari ed inseguire il successo. Esistere che etimologicamente exsistere, cioè uscire dallo stare. Se decido di ampliare l’orizzonte della mia vita, devo pormi fuori da questa che sembra essere la caverna di Platone e cominciare a pensare che la mia vita non sia soltanto questo, che non si tratti soltanto di essere migliori degli altri, ma partire da se stessi per avere una visione delle cose che superino il proprio, semplice stare qui. 

Attraverso il teatro e dunque l’uso della parola ragionata, si possono educare le nuove generazioni?

MC: Il teatro può educare le nuove generazioni. Ogni volta che in questo periodo facciamo matinée con i ragazzi, con qualunque spettacolo io faccia, sento che sto lavorando per provare a convertire, uso questo termine non nel senso religioso del termine, ma nel senso filologico, a far girare, cambiare direzione ai ragazzi. I ragazzi oggi sono coinvolti da un punto di vista intellettuale e spirituale in una situazione molto, molto particolare. I mezzi tecnologici con cui si rapportano sono tutti strumenti che spingono alla superficialità, alla leggerezza, nel senso più negativo del termine. Il teatro rimane comunque l’unica esperienza di spettacolo che si può fare partecipando attivamente. Più passa il tempo e più secondo me, questa esperienza sta diventando catacombale, ci sentiamo noi attori come quei cristiani che si nascondevano nelle catacombe per diffondere il culto Cristiano. Io sto lì, chiuso per un’ora e mezza e sto con quello che succede e non sono neppure passivo nello stare perché io provoco delle reazioni nelle persone che sono di fronte a me. Io sono in relazione con il pubblico. Poi ci sono i contesti e il tentativo di raccontare storie in cui identificarsi; storie su cui riflettere.

MRP: Il compito del teatro è anche questo, dare speranza. Quella che consente ai giovani di prendere in mano la situazione ed esprimere anche il proprio dissenso e proporre una nuova visione del mondo, contribuendo, così, al cambiamento.

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Anna Risola è studentessa Corso di Laurea
DAMS e Socia fondatrice Palchetti Laterali Università del Salento

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