Calendario

Gennaio 2020


18 lug

TTB - Accademia delle Forme Sceniche, Accademia Arte Diversità-Teatro La Ribalta Antonio Viganò e Teatro Koreja

Il suono della caduta

Martina Natuzzi e Christian Greco

Dalla Luna alla Terra


19 lug

Tourneè

Teatro Koreja in collaborazione con Potenziali Evocati Multimediali

X di Xylella, Bibbia e alberi sacri

dj set a cura di Enrico Stefanelli

Frequenze naturali


20 lug

Emanuela Pisicchio ed Enrico Stefanelli

Ánemos Nóos

I nuovi scalzi/crest

La Ridiculosa commedia


21 lug

Roberto Latini

Paradiso Perduto

Gianluca De Rubertis (Il Genio)

Discorsi suonati su Paolo Conte


22 lug

Brigitte Cirla & Sébastien Béranger

Recettes Immorales

Brigitte Cirla & Sébastien Béranger

Recettes Immorales


23 lug

Carlotta Viscovo

Il corpo della Lotta

Gianni Blasi e Vincenzo Pentassuglia

Eco Liquido

A. Renda/ Albe, Ravenna Teatro

NEPHESH


24 lug

A. Renda/ Albe, Ravenna Teatro

NEPHESH

A. Renda/ Albe, Ravenna Teatro

NEPHESH

Atalaya de Musicas

Resistencia Arbórea


25 lug

A. Renda/ Albe, Ravenna Teatro

NEPHESH

A. Renda/ Albe, Ravenna Teatro

NEPHESH

Teatro Koreja

Modugno, prima di Volare

Atalaya de Musicas

Suite Flamenca

immagine di copertina Il coraggio di conoscere e il dovere di ricordare.

Il coraggio di conoscere e il dovere di ricordare.

Visioni
di Gigi Mangia

Il
Teatro Koreja ha sempre avuto interessi verso la storia. Il suo credo
pedagogico è stato quello dello studio, della ricerca e della riflessione. Il
metodo è stato costruito con attività di laboratorio, coinvolgendo gli
studenti, le famiglie, il quartiere in esperienze performative e rappresentando
i capitoli più impegnativi della storia del nazifascismo del secolo breve. Il
teatro che si impegna a vedere la storia, deve educare al coraggio di conoscere
e al dovere di non dimenticare: l’uomo è il tempo pieno della sua storia. Io
rispetto, studio e ricordo. Io non odio.

La
Repubblica sociale italiana di Salò, voluta da Hitler, fu utilizzata per la
persecuzione degli ebrei. L’ordinanza n. 5 del Ministero degli Interni, firmata
dal Ministro Buffarini Guidi, il 30/11/1943, stabiliva di internare tutti gli
ebrei, sanciva la loro totale eliminazione. Gli ebrei, infatti, dovevano essere
portati nei campi di internamento e dovevano subire la confisca dei loro beni
che sarebbero stati acquisiti dalla RSI. Per facilitare la cattura degli ebrei
fu introdotta una taglia: 5 mila lire per gli uomini, 3-4 mila lire per donne;
mille o 2 mila lire per i bambini. Fu questa una misura vergognosa, che molti
italiani usarono per intascare denaro. Fu una delle pagine sociali più
vergognose della storia d’Italia, per gli italiani che non ebbero il coraggio
di sottrarsi ai nazisti. Nel nostro Paese non fu però tutto negativo perché ci
fu anche chi si impegnò, rischiando la propria vita, a salvare gli ebrei dai
nazisti. Una forma di solidarietà, molto bella significativa e creativa fu
quella dell’Ospedale San Raffaele di Milano. I medici dell’ospedale per salvare
dalla morte gli ebrei, li ricoveravano scrivendo nella cartella clinica di
essere affetti dalla malattia K: una falsa malattia che portava l’iniziale del
nazista Kappler. Anche la Chiesa dei preti si impegnò per salvare gli ebrei,
mentre la Chiesa ufficiale si comportò diversamente: il Papa e il Vaticano non
fecero niente per gli ebrei contro i nazisti, perché avevano paura di subire
l’invasione e le ispezioni delle SS nello Stato Vaticano. Le SS facevano paura,
avevano potere assoluto e per questo la gente preferiva non vedere o essere indifferente.  Il Papa si comportò secondo un preciso
calcolo politico e cioè quello di non essere coinvolto dal nazifascismo
affinché la Chiesa non subisse nessuna ingerenza, né nella dottrina né nella
sua organizzazione. La storia non si può dimenticare, l’oblio perciò è fatto di
pagine inutili, bianche senza righe e senza parole. L’uomo deve ricordare se
vuole evitare il male, soprattutto deve imparare a non odiare il diverso. 

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17, 18 lug

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Il suono della caduta

18 lug

Martina Natuzzi e Christian Greco

Dalla Luna alla Terra

19 lug

Teatro Koreja in collaborazione con Potenziali Evocati Multimediali

X di Xylella, Bibbia e alberi sacri

Koreja in tournée

immagine di copertina Liliana Segre: la tua scorta siamo tutti noi

Liliana Segre: la tua scorta siamo tutti noi

Visioni
di Gigi Mangia

Rifiutare ogni forma e manifestazione di discriminazione razziale, affrancare il dibattito pubblico dall’odio verso l’altro, il “diverso”, combattere le risorgenti tendenze neo-naziste in tutto l’occidente sono le sfide che ci devono vedere tutti impegnati: nessuno escluso. Lo scandalo di un Paese liberatosi con la Resistenza e a prezzo di milioni di morti dal fascismo che oggi si trova a dover proteggere una donna di 89 anni, testimone vivente delle pagine più oscure della nostra storia, è il segno di un popolo che oltre a non aver fatto interamente i conti col passato sembra aver rimosso ogni argine sociale e culturale al risorgente delirio nichilista dell’ideologia fascista. L’episodio deprecabile dell’astensione nel Senato della Repubblica di tutti i rappresentanti del centro-destra sul voto per l’Istituzione della commissione Segre, così come l’attacco incendiario subito dalla libreria “LA Pecora Elettrica”, autentico presidio di democratico e antifascista in un quartiere periferico, sono le prove più evidenti e preoccupanti di questa deriva. E di fronte a questa situazione tutti i cittadini che si riconoscono nei valori fondanti della Costituzione della Repubblica Italiana hanno l’obbligo di non restare in silenzio e nell’indifferenza. Tutti insieme abbiamo l’obbligo di riaffermare un primato sociale e culturale dei valori della libertà, della democrazia e della solidarietà e nel nostro quotidiano dobbiamo come Liliana Segre combattere con le parole che riaffermino il valore imprescindibile del rispetto verso ‘l’altro’. Liliana Segre deve nella presidenza della commissione e nella sua battaglia sentire il nostro sostegno per non sentirsi sola nei palazzi delle istituzioni e isolata nel Paese. E così grazie alla sua guida e al suo coraggio saremo in grado di affrontare il risorgente clima d’odio e spazzare con una ventata di aria fresca di ogni forma di violenza. 

Siamo tutti Liliana Segre. 

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18 lug

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Dalla Luna alla Terra

19 lug

Teatro Koreja in collaborazione con Potenziali Evocati Multimediali

X di Xylella, Bibbia e alberi sacri

Koreja in tournée

immagine di copertina L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

Critica
di Annarita Risola

Come acrobati, sempre in bilico tra l’esterno e l’interno dell’io, si giunge, a volte, in quel mondo parallelo fatto di percezioni alterate, di sovrapposizioni d’immagini e di ricordi forse mai vissuti. 

Ma qual è il confine oltre il quale il normale viaggio nell’immaginario si trasforma in patologica follia?

Ed è forse l’atavica paura della solitudine che porta l’uomo ad alterare la propria mente e a creare fantasiosi compagni di viaggio?

Danio Manfredini è l’attore e autore di Al presente, ma anche regista e “cantante”.

Il suo percorso di formazione inizia negli anni ‘70 presso il Laboratorio del Centro sociale Isola, dove studia con Cesar Brie, Iben Rasmussen, Dominique De Fazio e Tadashi Endo e poi continua nei Centri autogestiti di Milano e nelle strutture psichiatriche.

Il suo obiettivo, come egli ama sottolineare, è quello di evidenziare l’eterno conflitto tra l’incontro e la solitudine. 

Al presente fa il suo debutto 21 anni fa e permette a Danio Manfredini, l’anno dopo, di vincere il premio UBU come migliore attore. Siamo nel 1999.

La sala dei Cantieri Teateali Koreja, il 14 Dicembre 2019 è gremita.

La scena appare completamente bianca: le pareti, il pavimento, come pure i pochi arredi composti da una sedia posta sulla destra, un comodino da ospedale sulla sinistra e una panchina al centro.

Sulla parete frontale, uno dopo l’altro, sono proiettati quadri acquarellati (disegnati dallo stesso Manfredini ) che, in contrasto con il bianco della scena, sembrano rappresentare un’altra parte del mondo, quella colorata. Sono immagini di quotidianità, di passeggiate in bicicletta, di uomini sulle panchine usate come letti di notte nell’indifferenza dei passanti.

Anche Danio Manfredini è vestito elegantemente di bianco, così come l’uomo seduto che porta in scena, simile a lui nelle fattezze, una sorta di “pensatore” di Rodin, anch’egli scalzo e così inespressivo da far comprendere ben presto che si tratti di un manichino.

Due uomini agli opposti: l’uno statico, l’altro come ingoiato da un ciclone, che ruota intorno a sé, incorporando via via le storie, probabilmente vissute all’interno di un luogo psichiatrico.

Questa dualità racconta, forse, parte di un mondo che ci vuole semplici automi, privi di parola e dall’altra uomini fragili che assorbono e subiscono i pensieri altrui. Manfredini sulla scena è un uomo in continuo tormento. I suoi movimenti sono ripetuti, ritmici e nevrotici a rappresentare un mondo interiore fatto di mille emozioni che erutta come un vulcano. Un mondo, che per la sua intemperanza rievoca quello dei folli, non sempre rinchiusi in asettici ospedali; delle persone sole, che dialogano con se stesse e che si fanno compagnia ricordando i tempi passati e i frammenti di vita già vissuti.

Ma cosa rappresenta tutto quel bianco ?

Un luogo sterile o solo un luogo intimo violato, reso forzatamente pubblico e messo sotto un enorme riflettore? 

Come fermare quei ricordi, se non ripetendoli nella speranza di non dimenticarli?

L’unico modo per esprimere la sofferenza interiore è gridarla. E ciò che fa ordine in questo marasma di emozioni è l’armonia dell’inquieta, equivoca, ambigua staticità, di colui che pare guardare, riflettere e anche ascoltare le canzoni che, una dopo l’altra, fanno da colonna sonora.

Ma il suo canto è triste, come il suo volto, tinto di bianco che evidenzia i suoi occhi contornati di rosso.

Le mani dietro la schiena, le cui dita danzano come un pianista sulla tastiera, ma ciò che toccano sono vecchie note dolenti, la spazzatura che brucia vicino la casa dove abita col nonno e la mamma, mentre il padre prepara il sapone per il bucato. E tra un grido e un gemito, pone una domanda: “hai mai desiderato un’altra vita? […] Io l’ho desiderata”, risponde. Poi inizia vistosamente a tremare e a girare la sedia e vorrebbe che gli spettatori lo accogliessero con odio, in attesa della sua esecuzione. Evidente la sua allusione al lavoro teatrale dello scrittore tedesco Georg Büchner intitolata  “Woyzeck”, dal nome del protagonista, il barbiere omicida, impiccato nella piazza del mercato di Lipsia nell’Agosto del 1824. Egli la utilizza – come lo stesso autore dirà in un’intervista rilasciata a Gianni Manzella nel’98 – con la funzione di rendere il senso di ribellione.

La luce irrompe sulla scena, ed egli dice che vorrebbe riuscire a prendere il cuore per accarezzarlo, poi si copre con il lenzuolo, mentre si ode ”ti amo tanto, ti amo tanto”. Ora il protagonista occupa il centro della scena. C’è un gioco di  ombre sullo sfondo; come trino appare alle pareti e dopo aver platealmente indossato gli occhiali neri, dice che Dio non esiste, poi li ripone in tasca e augura “Buon Natale”. E continua: “Non si è mai completamente infelici”. Poi, seduto,  simula l’assenza di una gamba. Sulla canzone “Sally” di Vasco si accende una sigaretta e tossisce, la sua voce è commovente e le parole del testo “Perché la vita è un brivido che vola via…” sono un’ altalena sulla quale lasciarsi cullare. Poi è una donna che dal cassetto prende un librino, si fa il segno della croce e chiede di essere perdonata. Sono tutti frammenti di vite vissute, voci fuori campo. “  Ma le parole sono destinate a perdersi … e si può andare all’inferno anche senza scarpe “. Ma perché è senza scarpe? Forse per far comprendere che ora lui sia qui, nel presente, a mostrarsi nella sua fragilità. La luce inizia  a riempire gli spazi occupati prima da sentimenti nostalgici e negativi . Un’ultima immagine proiettata e un romantico sguardo all’infinito. Poi, lentamente, l’attore ruota capo. Il suo sguardo è celato dai grandi occhiali neri, ma altrettanto grande è il sorriso che offre, mentre con maestria attoriale s’inchina, per poi svanire nella luce.

Corso di Laurea DAMS // Progetto Palchetti Laterali Università del Salento

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Il suono della caduta

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Martina Natuzzi e Christian Greco

Dalla Luna alla Terra

19 lug

Teatro Koreja in collaborazione con Potenziali Evocati Multimediali

X di Xylella, Bibbia e alberi sacri

Koreja in tournée

immagine di copertina La ragione del terrore di Koreja: intervista a Michele Cipriani e Maria Rosaria Ponzetta

La ragione del terrore di Koreja: intervista a Michele Cipriani e Maria Rosaria Ponzetta

Interviste
di Annarita Risola*

Oggi più di prima il divario tra le classi sociali appare evidente. Secondo lei è frutto di una politica sbagliata o di un’ ineluttabile situazione umana?

MICHELE CIPRIANI: Sicuramente la condizione umana porta con sé una parte di egoismo e volontà di curare solo Il proprio personale interesse. Questo è un problema che c’è sempre stato nella storia dell’umanità. Quella che noi raccontiamo è la storia dell’immediato dopo guerra. A livello teorico ci sono le condizioni sociologiche e tecnologiche per risolvere questo divario. Ripercorrendo la storia, se alla fine dell’800 le lotte di classe avevano cercato di ridurre quel divario e nella metà del ‘900 si era manifestato un minimo di miglioramento. Dalla fine del secolo scorso, all’inizio di questo, c’è stata una inversione di marcia. Tale divario infatti, oggi è ritornato, come conseguenza. forse, di politiche sbagliate.

MARIA ROSARIA PONZETTA: La politica ha certamente una gran parte di colpa nel radicalizzare il divario tra le classi, anche se oggi è cambiato molto il concetto di classe  o di appartenenza ad una classe sociale. All’interno di una stessa classe, molte sono le differenze sociali, le rivendicazioni, i bisogni, le necessità. Non si può parlare, oggi, di una vera coscienza di classe unitaria. E’ un momento storico, questo, in cui sembra quasi esserci il rischio di una involuzione, per quanto riguarda diritti e conquiste sociali. Ideologie anticostituzionali, che sembrano ritornare alla ribalta. Assistiamo ad una vera e propria campagna di distrazione di massa e di disinformazione totale da parte dei media e di un certo tipo di politica palesemente volta a suscitare odio e violenza. Le persone vengono incasellate secondo alcuni parametri, dettati da un sistema politico, economico e sociale, che classifica persone di serie A e persone di serie B. Si dice che quando si è convinti che i propri problemi dipendano da chi sta peggio, ci si trovi di fronte al “capolavoro” delle classi dominanti. Siamo in balìa di politicanti che sfruttano e indirizzano il malcontento e l’intolleranza di quella parte di popolazione che subisce la crisi mediante “fenomeni di impoverimento”. Si tende a cercare capri espiatori nelle minoranze di vario genere, là dove, cioè, ci viene suggerito. Ecco che una politica discriminatoria, secondo la quale un essere è superiore o inferiore ad un altro, determina un forte indebolimento del senso di comunità e dell’empatia sociale, producendo un peggioramento della qualità della specie umana, che tanto “umana” sembra non essere più.   

Qual è la vera povertà?

MC: La vera povertà è l’impossibiltà di gestire autonomamente la propria vita. Gli amanti della democrazia, sostengono che già il fatto di poter esprimere la propria opinione sia sinonimo di democrazia. In realtà le distanze provocano la vera povertà. L’uomo,  quando non può pensare al proprio futuro,  soffre.  Il protagonista del nostro spettacolo, diventa violento proprio quando smette, giocoforza di pensare al domani.

MRP: La povertà è sicuramente la mancanza di beni di prima necessità, ma da questa povertà si può uscire in qualche modo, con l’aiuto di altre persone che ci possono sostenere quando rischiamo di toccare il fondo. La povertà da cui si fa fatica a uscire, è l’egoismo che non ci fa mettere nei panni dell’altro e ci fa vivere dei sentimenti di finto buonismo. La vera povertà è l’ignoranza, la mancanza di cultura e di informazione, “la povertà della testa più che delle tasche”. Per uscirne abbiamo bisogno della forza di un nuovo progetto, di una visione nuova, di ideali, di speranza. Tutte cose che la paura uccide. E’ chiaro che per avere coscienza di questo, bisogna che una fetta della popolazione raggiunga un sufficiente livello di qualità della vita. Ma la sfida da lanciare, come singoli e come comunità, non è tanto economica, quanto soprattutto sociale, politica ed etica. Da una parte vi è la necessità di maggiore giustizia sociale, dall’altra vi è la necessità di uno sforzo dal basso, da noi stessi, di non cedere a questo rancore, alla paura, di capire che non è il vicino il nostro nemico, né lo straniero, né il povero. Capire che la rivendicazione dei nostri diritti ha il limite nei diritti dell’altro, che sono forse gli stessi.  

La povertà porta inevitabilmente alla cattiveria e la cattiveria porta a delinquere?

MC: Non è detto che la povertà porti alla cattiveria. Sostengo altresì la possibilità, per ogni essere umano di poter scegliere, a prescindere dalle  condizioni esteriori in cui è costretto a vivere.

MRP: Secondo me la cattiveria non è necessariamente una conseguenza della povertà ma la conseguenza del malfunzionamento di un sistema economico sociale capitalistico che determina, un impoverimento culturale di chi si trova nella parte, ben più grande, della popolazione che subisce la crisi. Il vero problema sta in chi sfrutta le ragioni di un malessere contro una determinata classe sociale, nelle minoranze di vario genere, migranti, nomadi, “diversi” in generale. Questo meccanismo, soprattutto in casi di crisi, viene usato dal potere per indirizzare la rabbia contro le minoranze. Un sistema che falsando le ragioni aumenta e nutre il “cattivismo” dei poveri e, forse, legittima la violenza verso gli altri. 

Perché la necessità di raccontare storie?

MC: La ragione del terrore offre la possibilità di analizzare i comportamenti umani attraverso la narrazione degli eventi, cercando di provare a raccontare in realtà, quelle che possono essere le ragioni che stanno dietro anche al dolore che ha provocato un assassinio così efferato. Quando vediamo questi atti, li decontestualizziamo perché vediamo soltanto l’ultima parte dei comportamenti umani, che sono sempre molto complessi. Dietro ci sono sempre delle motivazioni profonde.  Credo che il tentativo di questo spettacolo, sia proprio quello di spiegarle.

MRP: Raccontare questo tipo di storie è importante e necessario. Il teatro è il luogo delle storie. Di cosa dovrebbe occuparsi il teatro se non della vita, delle storie che ci possono aiutare a riflettere, a porci delle domande, a guardare da più punti di vista, a capire che di verità non ce n’è solo una, ad indagare le ragioni che spingono ad un determinato comportamento. Il teatro che mi piace fare e guardare, che propongo e promuovo sempre nei miei laboratori alle nuove generazioni, è un teatro che si pone come obbiettivo quello di “ripensare” il mondo. Un teatro che, rispetto a particolari situazioni sociali, politiche e culturali, diventa uno strumento valido d’impegno sociale di denuncia e di critica di tutte le forme di potere. Il teatro dei buoni e dei saggi, il teatro che considera il male non estraneo alle caratteristiche umane. Il teatro sociale, il teatro civile e il teatro incivile. Il teatro che prende dalla cronaca per lanciare messaggi sociali e il teatro che, al di là della cronaca e della storia, si pone il problema di durare nel tempo portando con sé la poesia della scena.

Chi può salvare l’uomo?

MC: Io sono fermamente convinto che tutto quello che succede, avviene dentro di sé, perché ogni uomo ha tutto un suo universo, fatto anche di ricerca del benessere, da non confondere con il soddisfacimento dei più banali bisogni, ma la ricerca di quella che potrebbe definirsi la vera salute, cioè quella psichica, fisica e anche spirituale. Per fare questo, sono convinto che l’uomo debba lavorare molto sulla conoscenza di sé. Questa per me è l’unica possibilità per cambiare le cose. Ma cambiare le cose dall’esterno è molto più difficile. Siamo nell’epoca del post-tutto. Post-ideologia, non ci sono grandi ideologie che possano spingere l’uomo ad andare verso questa o quella visione politica della realtà. E’ un’ epoca post-teologica, la religione non è più importante come  un tempo, lo è soltanto per distinguersi dagli altri, per dire “io sono meglio di te”. Se da un lato tutto ciò non ci offre punti di riferimento, dall’altro ci responsabilizza. La bellezza dipende solo dall’uomo. Pensando alle parole del teologo Vito Mancuso o dello scrittore e filosofo russo Dostoevskij, ritengo che la lotta tra popoli sia inutile e mi auguro che tra qualche secolo non ci si occuperà più delle differenze  tra  popoli. L’unica forma di salvezza è data dall’osservazione della bellezza. 

L’amore, in quanto unica innata ricchezza, può fare ancora oggi da sprone al cambiamento?

MC: Sì, è chiaro che l’amore sia a livello relazionale, il compimento della bellezza. L’amore è una relazione armoniosa fra me e il mondo che mi circonda. Se io rendo concreta questa bellezza, questa armonia nella vita di tutti i giorni, nelle relazioni con gli altri esseri umani e con le cose che mi circondano, mi muovo in quel sentimento che si chiama amore. Così l’amore può spingermi a cercare delle soluzioni buone, belle e giuste e dunque, contrastare il terrore e la miseria umana.

Cosa rappresenta il vero terrore, la fame o l’incapacità di cambiare?

MC: Il terrore è la reazione più elementare e caotica alla fame, al bisogno. Penso che il terrore sia in stretta relazione con la paura di non riuscire a soddisfare i nostri bisogni primari. Quando viene a mancare  ciò che consideriamo  necessario per la nostra vita, abbiamo due cose: provare ad affrontare le difficoltà, cercando di mantenere integra la nostra umanità, oppure cercare di reagire nel modo meno sano, cioè facendo riferimento ai nostri istinti primordiali, quelli appartenenti agli uomini delle caverne. Penso che il terrore sia più l’incapacità di cambiare, che la fame in sé per sé. 

Ancora attuale il terrorismo psicologico, che alimenta l’individualismo e rende inette le persone che dovrebbe maggiormente  tutelare.  Al di là di ogni schieramento politico, come uscirne?

MC: Non lo so. Rimango fermamente convinto che dipenda da noi. Questo è un momento di grande confusione. Un tema molto importante è quello della tecnologia. Ritengo che il progresso tecnologico sia, in questo momento, inversamente proporzionale al progresso umano. Stiamo diventando sempre più potenti tecnologicamente, soprattutto una parte ristretta della società, mentre dal punto di vista umano, stiamo regredendo. Bisognerà imparare ad avere un rapporto corretto con la tecnologia, perché ho paura che in futuro possa modificare il concetto di umanità. Ci sono dei grandi problemi, sociopolitici, economici ed ecologici in questo momento storico, però le persone continuano a pensare alle piccole crepe che hanno sotto i piedi, alle piccole cose quotidiane. Bisognerebbe pensare ai veri problemi che in questo momento affliggono il nostro paese.

Ragione e terrore, due parole apparentemente inconciliabili, eppure storicamente così freddamente realizzate, come sottrarsi alla logica del male?

MC: Dalla logica del male si esce col lavoro, un lavoro quotidiano. Ognuno di noi appena si sveglia è immerso nella propria vita, nei propri problemi. Ma, citando ancora Vito Mancuso, si può vivere o esistere. Vivere è svegliarsi la mattina e pensare di soddisfare i bisogni primari ed inseguire il successo. Esistere che etimologicamente exsistere, cioè uscire dallo stare. Se decido di ampliare l’orizzonte della mia vita, devo pormi fuori da questa che sembra essere la caverna di Platone e cominciare a pensare che la mia vita non sia soltanto questo, che non si tratti soltanto di essere migliori degli altri, ma partire da se stessi per avere una visione delle cose che superino il proprio, semplice stare qui. 

Attraverso il teatro e dunque l’uso della parola ragionata, si possono educare le nuove generazioni?

MC: Il teatro può educare le nuove generazioni. Ogni volta che in questo periodo facciamo matinée con i ragazzi, con qualunque spettacolo io faccia, sento che sto lavorando per provare a convertire, uso questo termine non nel senso religioso del termine, ma nel senso filologico, a far girare, cambiare direzione ai ragazzi. I ragazzi oggi sono coinvolti da un punto di vista intellettuale e spirituale in una situazione molto, molto particolare. I mezzi tecnologici con cui si rapportano sono tutti strumenti che spingono alla superficialità, alla leggerezza, nel senso più negativo del termine. Il teatro rimane comunque l’unica esperienza di spettacolo che si può fare partecipando attivamente. Più passa il tempo e più secondo me, questa esperienza sta diventando catacombale, ci sentiamo noi attori come quei cristiani che si nascondevano nelle catacombe per diffondere il culto Cristiano. Io sto lì, chiuso per un’ora e mezza e sto con quello che succede e non sono neppure passivo nello stare perché io provoco delle reazioni nelle persone che sono di fronte a me. Io sono in relazione con il pubblico. Poi ci sono i contesti e il tentativo di raccontare storie in cui identificarsi; storie su cui riflettere.

MRP: Il compito del teatro è anche questo, dare speranza. Quella che consente ai giovani di prendere in mano la situazione ed esprimere anche il proprio dissenso e proporre una nuova visione del mondo, contribuendo, così, al cambiamento.

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Anna Risola è studentessa Corso di Laurea
DAMS e Socia fondatrice Palchetti Laterali Università del Salento

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